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Effetto Memoria: Fright Night vs. A bout de souffle vs. Super 8

Sorvoliamo, gente, sorvoliamo.
ATTENSIONE SPOILERSS rosso ambrato.
Sono tre film, siete avvertiti.

Il primo film di oggi parla di vampiri, belle sorchette e ragazzetti che rinnegano tutto pur di averne una fetta. Di sorca. Signori e signore, stiamo parlando di Fright Night.

Per la prima volta in questo blog, a memoria d'uomo e non contando quel paio di volte in cui s'è parlato di Ligabue, siamo davanti a un- udite, udite -  remake.
Ma c'è un grosso 'ma' (ergo un MA). Io l'originale non l'ho visto. Quindi non sto neanche a disturbarmi a guardarlo, o a guardare altri film del regista del suddetto, Craig Gillespie. Vi parlo del (qui) presente.

Il buon Charlie Brewster (d'ora in poi C. Bbbiuste, o solo Bbiuste) vive una vita ai limiti della perfezione. Va al college, abita in una casetta borghesuccia in una cittadina vicino a Las Vegas, sta con una che annullerebbe con lo sguardo qualsiasi vasectomia (Imogen "boom http://www.imdb.com/name/nm1782299/" Poots), per quanto irreversibile sia. Tutto questo, attenzione, perchè ha rinnegato i suoi ex-amici nerd. Che - attenzione - cominciano a sparire uno dopo l'altro grazie al vicino di casa del nostro Bbiuste. Che, attenzione - spoiler alert - è un vampiraccio. Che - wasabi - è Colin Farrell.
Da lì in poi è tutta campagna.

This is not a Charlie Bbiuste.
Questo film ha tutti i difetti di partenza del mondo. È praticamente un pregiudizio in formato 35 mm.
  • È un remake. E i remake lo sappiamo cosa ci causano ai testicoli.
  • È in 3D. E i film in 3D, porca troia.
  • Ci sono i vampiri. Che, di per se, non è un problema - anzi. Però ultimamente è davvero uno smaronamento, un'ostentazione, un "parlarne a caso che pare bello" e invece non lo è.

Dati i dati, uno entra anche al cinema col legittimo sospetto di trovarsi davanti a una secchiata di cacca. E vi confesso che lo sospettavo talmente tanto, ma talmente tanto, che io in sala ci sono entrato solo perchè in questo fottutissimo c'è David Tennant - l'ho già detto? 
No. 
Bene. 
David Tennant è probabilmente il miglior giovane attore inglese. È uno che una sera ti fa Shakespeare, la mattina dopo lo stilista busone in una serie TV, quella dopo ancora il padre di famiglia vedovo, quella dopo ancora il viaggiatore nel tempo eccentrico e con due cuori. Sì, lo sapete di chi parlo. Del laburista.

CUT TO:
Il suddetto esce dal cinema. Sorridendo.

Proprio così. Contro ogni probabilità. E a me piacevano tantissimo quelle probabilità.
Fright Night è divertente perchè è inconsistente (inconsistente film de paura, non inconsistente Ezio Greggio) e i film di vampiri seriosi se li mangia - o, se preferite, se li succhia. Si parla di un film molto teen, con una sceneggiatura che tutto sommato fila e sfacciatamente pretestuosa, attori simpatici (Yeltzin col suo bel faccino, la Imogen che wow-non-vedo-l'ora-di-vederla-nelle-commediole, Christopher Mintz-Plasse nerd e contento as usual). Poi c'è, Farrell - ok, bello come il peccato ma non fa quasi un cazzo - cioè, fa il cattivo ma è facile fare i cattivi, specie se hai la faccia di CF.

Da man.

Ma la morale di Fright Night è che un altro cinema è possibile. Un cinema in cui posso sentirmi lobotomizzato ma non preso completamente per il culo. Un cinema d'intrattenimento in sincrono con i tempi, ma non altrettanto degenere.
E vai con la morale.


Super 8 lo sanno tutti. Troppo facile. Riassuntone a pallettoni:

  • È il nuovo film dello Spielberg degli anni 70/80.
  • È il nuovo film di Jota Jota Abrams.
  • È un film proprio buonissimo. Buono lasagne, per intenderci.
  • C'è Elle Fanning. È un po' meno classicamente bella della sorella, ma compensa in bravura e ti ruba l'anima. Anche il ragazzetto è bravo.
  • Parla di un gruppo di ragazzetti (Goonies) col sogno del cinema (JJ Abrams), capitanati da un ragazzetto che lotta per crescere ( JJ Abrams). Arriva l'alieno misterioso che fa succedere le cose misteriose (Incontri ravvicinati del terzo tipo + JJ Abrams), e che vuole tornare a casa nonostante il governo bastardo (E.T.). Se ne parla anche come di Cloverfield simpatico. More on that later.
  • Questa somma mi rivela che la somma Abrams + Spielberg è più equilibrata di quanto pensassi. Soprattutto considerato che...
  • La postilla del film è la stessa di Lost: Remember and let go.
  • L'unico grande difetto del film, tranne alcuni passaggi di sceneggiatura un po' deboli ma che si risolvono da soli senza neanche troppi "indovinamenti paranormali", è l'alieno del film: è quello di Cloverfield piccolo, quindi è brutto, nel senso che esteticamente funziona poco e non ha segni distintivi. E poi sfido qualunque essere dell'universo a voler stabilire un contatto empatico con lui.
  • La cosa che rende più spielberghiano e meno ambramsitico il tutto è la rivelazione che forse non è solo la “mistery box” il quid dell'occhialuto regista ammerigano - giusto, avete ragione... di Abrams.
  • C'è il bambino di Settimo Cielo. Quello che per un po' aveva la voce di Bart Simpson.

Alla fine di questi film c'è sempre qualcuno con la retina bruciata.


[Attenzione, segue pippotto]
Il paradosso fondamentale del film è che, per una storia in cui “si ricorda e si lascia andare”, si ricorda molto e si lascia andare poco. Come già fatto notare altrove, Super 8 è un'operazione metacinematografica di riciclaggio simile a quelle di Tarantino, dove il punto di riferimento sono le pellicole del padrino stesso del tutto (Spielberg, of course). Cosa che, apparentemente, trucca le carte del gioco, venderebbe l'anima del regista al “diavolo” del 'vecchio' mainstream, ma non alza la posta (semprequi).
All too easy. Perché 
a) Lo Spielberg anni 80 è un modello neutro, non "nobilitabile" da un punto di vista 'politico-estetico', al contrario dei generi solitamente affrontati da QT. Insomma, non c'è peccatore perchè non c'è il peccato. È la forma più sana di entertainment, e manca del potenziale problematico di altri generi più consolidati, dove la storia è al servizio del genere e delle sue regole, anche quando le rompe (western, horror, poliziesco, storico per certi versi, etc. - i generi classicamente ricliclati da QT). Qui è il/i genere/i al servizio della storia, e il nuovo genere derivante è un Frankenstein (come tutti i generi, leggete questo) geneticamente hollywoodiano. Cosa che ci porta al punto b.
b) Resuscitare l'entertainment vecchio stampo è, di per sé, un cavallo di Troia micidiale. È cinema d'intrattenimento, e ok; è un “remake senza originale”, e ok; ma è la rivendicazione (esattamente come in Tarantino) di un cinema diverso, più autenticamente a misura d'uomo – non di target. Questo film è difficilmente smerciabile a teen e pre-teen, ma è su misura per due audience: un audience in odore di investire su una storia altamente emotiva, carica di sense of wonder e quant'altro, e/o un audience consapevole (e forse amante) che esiste un modello. 
c) Sulla nostalgia ci ritorno quando avrò letto Retromania di Reynolds. Perché non ho esattamente un'opinione precisa a riguardo. Per ora mi piace, ma mi spaventa.

"Ma sul giornale non c'era scritto niente..."

Extra: la parentela con Cloverfield, ovvio, c'è. Ma è altrettanto palese che i due film partono da zone opposte del mondo per arrivare all'incirca nello stesso quartiere: CF un monster-movie, il mostro è al centro della questione, possiamo menarcela quanto vogliamo ma il focus è il mostro (e infatti Abrams l'ha lasciato a un altro da diriggere) - è tutto un altro modo (sense of mistery) di dire la stessa cosa (il monster-movie); l'altro è il consueto character study abramsiano con un po' di intreccio, declinato al verbo Spielberg (Cento-cento-cento), e, in fin dei conti, è dire lo stesso modo (sense of mistery) per dire un'altra cosa (il film d'intrattenimento spielberghiano). E siamo nelle vicinanze, ma non sono esattamente sovrapponibili. Comunque poi vi faccio lo schema.
Chi vincerà? Per ora, vince Cloverfield 3 a 0 (Mission Impossible 3, Star Trek 1 e 2). Perchè JJ Abrams, lui senza nascondersi dietro qualcosa, alla fine non s'è ancora visto.
[Fine pippotto]

A bout de souffle, e cercheremo a questo punto di essere bravi e brevi, è il massimo compimento dell'effetto nostalgia. Tanto per fugare il dubbio da sospetti di elitarismo sinistrorso, questo classico del cinema ha un’approvazione del 95% su Rotten Tomatoes.


Più malandrino che puoi.


La storia: il protagonista è Michel, un teppistello maledetto francese che fa le mossette alla Humphrey Bogart. Il nostro ruba una macchina a Marsiglia, spara al poliziotto e giunge a Parigi, dove ad attenderlo ci sono due donzelle. La seconda, Patricia, interpretata dalla impossibilmente bella Jean Seberge, è quellla che gli ha rubato il cuore e di cui vuole definitivamente, a sua volta, rapire l’esistenza. Siamo davanti alla classica dinamica Cavaliere dall’aspetto rude vs Fille ambigua intellettual-liberal-sognatrice: lei crede alle sue promesse; lui, bugiardissimo e misterioso lui, verrà segato dalla polizia per un equivoco piuttosto evitabile - ma non dimentichiamo che è stata proprio la Patricietta a chiamare la polizia per lui.

Lo sapete tutti (vero?) che Godard fa parte della Nouvelle Vague, che la Nouvelle Vague erano tipo dei nerdacci di film (come Spielberg, Lucas e Abrams, però più artistoidi), francesi, che volevano fare il cinema nuovo e far rivalutare al mondo il cinema come arte, e soprattutto i loro filmacci preferiti (tipo, Hitchcock) e tanto altro. È come se io domani mi alzassi e pretendessi che
Ad ogni modo, Godard di questa nuova ondata avrebbe fatto la fine di Alan Moore, o Claudia Koll in mancanza di esempi calzanti.

Espressione dei miei prof di cinema quando leggeranno la mia sintesi della Nouvelle Vague.


Comunque.
A bout de souffle è sostanzialmente un noir girato alla buona. Ed è questo che lo rende divertente. Soltanto che sembra girato alla buona (e per certi versi lo è), ma c'è quell'incoscienza cosciente che è tipica degli sperimentatori. A tratti sembra quasi che la finezza stilistica che l'avrebbe reso famoso sia solo casuale, specie se si pensa a quanto casualmente sia nato il jump cut (il film era troppo lungo, e andava tagliato), e  con quanta sicumera si fanno saltare tutti i codici linguistici del cinema fino ad allora conosciuto e praticato (ma qui, la cosa è sicuramente più ponderata).
La nostalgia tutta culturale (e nerdica) qui costituisce il seme della rivoluzione, la risposta a un mondo che cambia (è il 1960, c'è il gaullismo in Francia) ma non abbastanza, non nella direzione più luminosa. Il fuorilegge va generato, amato – poi braccato e ucciso. Perchè così deve essere, se il cambiamento duraturo ha da venire.

"... poi chiudo il browser. Sta recensione fa schifo".


Insomma, potremmo anche non arrivare da nessuna parte con questo post. E sarebbe identico. Dimostreremmo ancora una volta che il cinema, come l'arte tutta, è fatta di ricorsi, cicli, ritorni sempre diversi - ed è interessante se si pensa la reincarnazione non fa parte della nostra cultura, e che di conseguenza siamo così tanto abituati a pensare in termini di "copia", "plagio", "citazione", "mashup".
La domanda che mi pongo: il riuso è uguale al riciclo? Riciclo=crisi creativa? Crisi creativa=what? Dove va il cinema, la cultura popolare, se da un lato genera intrattenimento Transfomers (presto su questi schermi) e dall'altro cerca di rigenerarsi ogni semestre riproponendo il passato con nuove vesti?
A voi, più in basso e se gradite, l'ardua sentenza.


Morale: 
"Mi ricordo che ho un ricordo. Spero che non me lo scordo" (cit.)



Habemus Papam vs. Parto col Folle

Un applauso a voi per essere ancora qui, cari lettori/trici e agli 8 frequentatori di CapComuni che si sono misteriosamente trovati qui per ragioni a noi ignote.

Si torna al presente, ma soprattutto si torna definitivamente - o, almeno, per un lungo mentre - alla formula classica di questo blogghettino: affiancare due film assolutamente non-apparentabili in una recensione attendendo la reazione chimica.
Questa semana: Habemus Papam, l'ultima fatica del nostro leggendario Nanni Moretti nazionale, e Due Date (nei nostri lidi Parto col folle, adattamento triste ma quantomeno spiritoso), parentesi rosa tra due Hangover (aka Notte da Leoni) del regista americano Todd Philips - uno di quelli bravi con le commedie.

Di Habemus Papam non mi è facilissimo parlare. Ancor meno nei termini cazzoni a cui vi ho abituato.

Trama in due righe: il neo-papa, al momento della proclamazione, ha una crisi e scappa. Lo psicanalista chiamato a risolvere la situazione è costretto a rimanere a badare ai vegliardi del conclave, e in fin dei conti a ricevere anche lui una bella lezione d'umiltà.

Nuntio Vobis Gaudium Aaaargh!

Habemus Papam è un'apologia dell'umiltà. E non è la solita umiltà, quella dei vincitori, è quella dolorosa dei perdenti, quella lacerante dei responsabili (scritto minuscolo, pensando ai maiuscoli - ezzacchete) della presa d'atto che "no", a quel punto non ci si può arrivare e basta. Che possiamo sbagliare irreparabilmente, ma a volte abbiamo la possibilità di rifiutarci di sbagliare. E scegliere.
Sarà ozioso sottolinearlo, ma, un po' ricicciando sempre la frase di Frank Zappa che le canzoni d'amore creano false aspettative sulla vita ecc... beh sì, è vero anche per i film - soprattutto per i film. L'etica  del "niente è impossibile", dell'audicia nonostante tutto, delle fondamenta del Sogno Ammerigano nsomma - quella che ci viene anche abbastanza giustamente propinata da Walt Disney in su (sulla curva demografica) - va dosata in base a quello che siamo, non in base a quello che vogliamo. E la felice di grandezza questo film sta proprio nel saper vedere l'inevitabilità del momento di illuminazione, in cui ci si accorge del prossimo, di dove finiamo e dove iniziano gli altri. Del dover stare a bordo campo con il pallone in mano, perchè gli altri stanno facendo e sanno fare.

Qualcuno ha detto"matrimonio a pezzi"? "Kitsch"? "Cheap"?
Habemus Papam vede il ritorno di Nanni (del Nanni-Apicella, diciamo così) prepotente anche davanti alla macchina da presa. Ed è il teatro parecchi morettismi che rimarranno negli annali e che non vi spoilero anche se li saprete già.
Non è comunque un film quadratissimo: lo psicanalista interpretato da Moretti è un personaggio che calamita un po' troppo l'attenzione nel cuore del film, a discapito di un Michel Piccoli bravissimo (anche se in un paio di scene l'occhio vitreo faceva intuire un "checazzocifaccioqui?") ,ma che avrebbe comunque meritato (lui e il suo personaggio, intendiamo) un poco di screen-time in più (magari tagliando sul finale un po' equosolidale dell'altrimenti poetica sequenza sulle note di Todo Cambia di Mercedes Sosa). Poi c'è Margherita Buy, che va beh, potevamo anche lasciarla a casa a sto giro, a Nà. E poi, la domanda fondamentale: se il Papa è francese, e la sorella è francese, come fa a sapere a memoria Checov in italiano?

Ora, dopo essere riuscito a parlare di Habemus Papam senza dire neanche una volta la parola Chiesa - cosa che mi rende molto più figo di molti recensori pagati-, passiamo a Due Date, film successivamente noto come Parto col Folle, un film che minghia invece no.

Al centro del film l'architetto educato e very milanese Peter Highman (Robert Downey Jr senza pizzetto), che deve tornare a casa dalla moglie in tempo per il parto; nel viaggio, ha la sventura di incontrare il sudicio e imbarazzante Ethan Tremblay (Zach Galifianakis - cazzo cambia cognome - con la permanente), attore in erba ai limiti della macchietta.

Non volete sapere cosa sta combinando questo cagnolino.
 

Due Date parla sempre di epifanie inevitabili, sulla propria esistenza e su quella della propria nazione: sostanzialmente è il classico road movie con la strana coppia unita dalle circostanze, ma c'è qualche sfumatura sociologica interessante - per quanto, e ci mancherebbe altro, finalizzata alla situazione comica e di empatizzazione con i personaggi. Come amalgamare le due Americhe, quella alto-borghese e sofisticata, con quella campagnola e "bifolca" - certo, nessuno dei due è tipicamente stereotipato, ma tant'è? Col cuore, come ogni mediazione cinematografica si rispetti da Griffith ad oggi.

Mise en abime (se vedete il film, la capite meglio)

Phillips rulleggia ancora (e ci infila sempre , Downey non si sforza e nemmeno Galifiaffanculo, tanto che mi sembra che sia stato esplicitamente indicato a entrambi di fare il meno possibile. Nemmeno le faccette. E infatti il film, per quanto ben realizzato, non fa ridere (baaaasta battute sulla masturbazione, baaaaaasta dire vagina ogni due minuti!) - anzi, fa ridere il minimo, fa riflettere altrettanto fa emozionare ancor meno. Funziona certo, ma con attori di questo calibro e il regista dietro al film comico hollywoodiano meglio venuto degli ultimi, che ne so, alcuni anni, dai... Sì, certo è il classico esempio di prendi tre fenomeni e paghi uno: il problema è che la cosa pesa.


Morale:
Non importa quanto sei figo, non importa quanto sei sfigato:
arriva un punto nella vita in cui realizzi che sei un verme.
E Nanni Moretti non ti può aiutare.

Coming Soon:
?

Prospettiva Miyazaki Finale - La Principessa Mononoke, La Città Incantata, Il Castello Errante di Howl & Ponyo

Oh. Mio. Dio.
Perdono.
Perdono.
Perdono.
Amici bielorussi, non avrei mai voluto che passasse così tanto tempo dall'ultimo post. È stato un insieme di terribili circostanze e onorevoli disguidi... ma tanto queste scuse sudicie non vi interessano.
Andiamo al sodo.

Con questo post, chilometrico oltre ogni dire, si chiude il lunghissimo discorso Miyazakiano.
O meglio, si chiude per il momento. La produzione Ghibli e dei film scritti o in qualche modo eredi della tradizione Ghibli non si esaurisce qui, e ci saranno ovviamente molte possibilità di parlarne in futuro.

Non c'entra niente, ma sappiate che mentre scrivo su RaiMovie stanno passando Furyo, e ora c'è un primo pianissimo di David Bowie quand'era ancora un sanissimo e perfetto esempio di razza ariana. Ma non andiamo avanti, se no 'sto blog chiude o per buliccismo acuto o per nazismo sedizioso.

Per un rinfresco dei plot di ciascun film, vi rimandiamo al sempre simpaticissimo Internet.

La principessa Mononoke
Questo è probabilmente il film più oscuro (in più di un'accezione) della filmografia miyazakiana: è violento, sanguinario (di quel sanguinario con fiotti di sangue che seguono traiettorie da condono gravitazionale) e radicale. La guerra tra Uomo e Natura qui si combatte sul serio. E la gente muore. Anvedi se muore.
Al centro del film, stavolta, un uomo: la principessa del titolo, per quanto centrale nell'intreccio, ha un ruolo prtaicamente da comprimaria. E il ribaltamento della situazione Disneyiana (per quanto non cercato dal Nostro) è ulteriore, proprio perchè la nostra "Principessa" è in realtà un personaggio figlio della violenza e dell'arma. A conferma che non sempre dark è meglio, e nonostante il solito sforzo d'inventiva e la tanta sostanza che c'è dietro, Mononoke risulta un film meno coinvolgente rispetto ai precedenti (forse la poca chiarezza di alcune dinamiche del film, forse io che sono invecchiato), ma comunque capace di toccare le coscienze anche grazie all'atmosfera mitologico-rurale e alla vitalità (insostituibile) dell'animazione.
Insomma, tutto sto grittume si fa anche perdonare: regia e art direction esemplari come sempre, con l'ingresso del computer nel compositing che, diciamola tutta, si fa fin troppo vedere e danneggia le (poche) inquadrature in cui è utilizzato. Peccato, ma c'è sempre d'imparare.

La Città Incantata
Il paradiso delle fiabe e dei personaggi da fiaba, una riflessione sul doppio e sull'opposto (emblematiche le sequenze dello spirito del fiume e quella immediatamente successiva dello spirito dell'oro): la contraddizione umana si traduce qui nel mancato rispetto della natura (ancora, certo), della magia (i genitori che scrofeggiano e per contrappasso vengono scrofati), e dell'infanzia - la protagonista torna ad essere una ragazzina, decisamente meno coraggiosa e quasi oltraggiosamente presuntuosa, che cresce addossandosi responsabilità e concedendosi di sognare. Un film fatto di contrappesi e spostamenti d'asse, di treni che viaggiano a pelo d'acqua.


Il Castello Errante di Howl
Alle ragazze timidine piacciono i ragazzi misteriosi, e proprio non ci riescono a non innamorarsene. Howl è una storia di questo tipo, solo ambientata in un'enorme fortezza camminante. Finalmente una storia sull'Amore romantico oltre il tempo e lo spazio, senza melodrammi e con personaggi memorabili: una versione fantasy del Doctor Who (sì, sono fissato e monotematico)? Sì, ma anche di più: una lezione sull'umiltà, sulla ribellione e sul rifiuto della violenza, temi miyazakiani che collassano grazie a trovate dal sense of wonder quasi sconvolgente. E, per la prima volta forse, una Storia d'Amore con tutti i crismi.

Ponyo
Con Ponyo, si torna bambini. Un film con un tale cuore e tenerezza che fa paura, un film che parla dell'Amore, e del suo immenso potere, soltanto che lo fa parlando di una bimba pesce e del suo 'fidanzatino' umano di cinque anni. Il dualismo Uomo-Natura diventa il punto di partenza per un H&M più propositivo che mai. L'Amore totalizzante, quello che qui assume tanti di quegli aspetti che parlarvene mi sembra quasi di rovinare tutto. Fiori fragili al cinema. O nel vostro salotto, a sto punto. In due termini: riscalda il cuore ed è spettacolare. Se non vi tocca minimamente una cosa tanto sincera, andate a farvi un trapianto di esistenza.

Coming prima o poi:
Prospettiva Miyazaki: Una Prospettiva
Prospettiva Miyazaki: Encore

Coming soon:
Boh.

Speciale Fimmine: Il primo cavaliere vs. Scott Pilgrim vs. The World

In questo blog, c'è un forte affetto per il mondo femminile, che, ok, ci fa penare sempre come dei cristi, ma alla fine ci si vuole sempre bene. Tanto da farsi una pedalatona di chilometri nella nebbia pavese e nelle risaie per andare alla manifestazione "Se non ora, quando?". Molto bello, soprattutto se a Pavia la polizia permette solo di fare un corteo circoscritto a PiazzaVittoria. Bravi.
Ebbene, DF torna temporaneamente al formato classico per parlare di due film di completa sottomissione del masculo al genere femminile: Il Primo Cavaliere e Scott Pilgrim vs. The World. Oddio, sottomissione è una parola un po' fortina. Diciamo che in un film da una donna pendono le sorti di un regno, dall'altro la vita di un povero sfigatello.
Iniziamo col primo. Cavaliere.
La defenestrazione di Ginevra.


La storia si riassume così: Re Artù viene cornificato da Ginevra, che nicchia nicchia e poi si stralimona il Lancillotto (di Lancillotto).

Hard Lemon (Came-a-lot)
Andiamo direttamente al sodo. Il Primo Cavaliere è un film con un solo, maestoso pregio. È montato da Dio, ha un ritmo tale che quasi sembra un film bello. Ehi, ma guarda chi c'è nei titoli: Walter Murch, tipo la semidivinità del montaggio hollywoodiano contemporaneo. Walter Murch sarebbe in grado di rendere quasi sensato anche, che ne so, Svitati on the road.
Peccato che poi rifletti su ciò che hai appena visto, e, anche condonando l'eccesso di idealismo alle essenze di frutta e la melensitudine da ernia iatale di cui è intriso, capisci che hai visto una grandissima puttanata. Un film hollywoodiano come questo, quando è ponderato e scritto decentemente, si struttura attorno al percorso di un personaggio principale, elemento fondamentale sul quale si innestano varie trame e sottotrame, comunque funzionali alla storyline principale. Più raramente, succede che i personaggi centrali siano più d'uno, e le loro vicende si sviluppino parallelamente o si intreccino addirittura.
Ne Il Primo Cavaliere, il focus passa da un personaggio all'altro, senza alcun sviluppo o giustificazione, creando una successione compartimenti stagni legate da un'esile filo narrativo. Il film inizia su Lancillotto, continua su Ginevra, alla fine sembra essere sul tormentato Artù, per poi sterzare fortunosamente sulla coppia Lancillotto-Ginevra.
Non solo: la storia d'amore tra Ginevra e Artù è il solo fil rouge che porta avanti il film, ed è puramente pretestuosa: non ha basi concrete, Lancillotto è monoliticamente convinto da inizio a fine film che Ginevra si concederà; Ginevra - l'unico personaggio con un minimo di attrattiva e spessore - non ha un momento di reale esitazione, passa improvvisamente da un partito all'altro e ritorno, senza che ci si soffermi minimanente sulla sua (eventuale) indecisione, e questo distrugge la credibilità della storia d'amore. E, visto che questo film su questo si basa, significa che il film ha fondamentalmente fallito. Ma i suoi soldini  se li è portati a casa lo stesso.
Ma la reggina non è l'unico personaggio dipinto a cazzuolate le origini di Lancillotto paiono improvvisate solo per giustificare una scena . E, al contrario della brava-in-quanto-modulata Julia Ormond, qui il buon Richard Gere non fa altro che lo sborone con la spada, le tagliole e le nuotate. E ogni tanto chiagne. Chiagne e fotte. Bravo.
Infine, c'è Artù il soprammobile: qui Sean Connery interpreta l'incarnazione di un ideale (Camelot) talmente astratto e vago da essere inafferrabile. Questa incertezza etico-morale, a cui i valorosi cavalieri dovrebbero ispirarsi, fa l'occhiolino con una contemporaneità buona perchè democratica e tollerante, stabilendo un fil rouge sovrastorico un po' strano. Sei anni dopo, questo.

Sean CoRnery.

Insomma, questo film è stato scritto, riscritto, ritagliato e rincollato così tante volte da dare le vertigini anche a Bossi, quanto a coerenza.
Ora, non sfugge neanche a me l'ironia della situazione: hai parlato di Se non ora quando, il film merdoso della situazione è Il primo Cavaliere. Eccetera. Ma vedete, che voi c'avete solo quello in testa (That's what she said).
Passiamo ad altro.
 


Scott Pilgrim vs The World è un fi esattamente il contrario de Il primo cavaliere.
SP che sprizza genuinità e cuore grazie alla sua implacabile iperbolicità (ammappate che paroloni): la storia di un normale boy meets girl diventa uno pseudo-videogame lisergico avvinghiato con la punta delle unghie alla realtà. Lacerandola. Scopo ultimo del nostro eroe è conquistare una lei inafferrabile, ma soprattutto ri-conquistare se stesso.

Al terzo minuto, già si capisce che qualcosa non va...

Scott Pilgrim è un ragazzo come tanti altri, nerd quanto basta e bassista (hiyay!) di una garage band,  i Sex Bob-omb. Un bel giorno, conosce la ragazza dei suoi sogni (letteralmente), Ramona Flowers. E per stare con lei, deve affrontare i di lei Sette Malvagi Ex, uno più strambo e potente dell'altro. Ma per amore, si porge l'altra guancia (e se uno porge l'altra guancia, vuol dire che non si è colpito abbastanza forte - cit.)
Come ti capisco, Scottie...
Edgar Wright, il regista di questa perlona tratta da un fumettone Bryan Lee O'Malley (beccatevi che faccia da schiaffi che c'ha), è un fumatissimo regista inglese che ha firmato il rivoluzionario (anche se tutto sommato non ridancianamente spancevole - almeno per me) Shaun of the Dead e l'action movie coi ciccioni definitivo, ovvero Hot Fuzz. Recuperateveli, siuri.
Ebbene, una volta accettato l'arduo compito di adattare uno dei "manga" più  orgogliosamente nerd ever per il grande schermo, Wright ha distrutto la scatolina con scritto "Attenzione, distruttore di inibizioni cinematografiche" e ha lasciato che il film crescesse da solo, con invenzioni visive talmente inventive che forse sarebbe il caso di ridefinire la parola "pop". In tutte le lingue ed accezioni. Per farvi un esempio di quanto sia perfettamente inutile parlare di questo film a parole, eccovi i soli titoli di testa.


Una delle tante cose che rendono questo film propedeutico all'evoluzione della specie umana.
Qualcuno si è lamentato che questo Scott non avesse il fattore di "in-credibilità" dei film precedenti di Wright, semplicemente perchè al posto della montagna di simpatia nota al mondo come Nick Frost, c'è la Graziella del cinema contemporaneo, il nerd-per-tutte-le-stagioni Michael Cera. Il discorso era che, se la fisicità propromente del Nick giustificava l'improbabilità dei suoi stunt hollywoodiani post-moderni, non succedeva altrettanto con il povero Michael, la cui fisicità esile non era altrettanto ridicola. Ma perchè? Caro il mio collega recensore, perchè? è che sto lavoro incancrenisce il cuore, ecco che c'è. Ogni tanto vi fan bene un po' di Muppets, che rinfrescano l'anima.
Il valore aggiunto di questo capolavoro, e non esito a chiamarlo così perchè giocare a ping pong con l'apparato visivo del pubblico non son capaci mica tutti, sono i personaggi, in perfetto equilibrio tra tipo e personaggio a tutto tondo, con la fantastica Mary Elizabeth Winstead, che, oltre ad essere uno squinzione paciarotto, impersona una Ramona Flowers stronzissima, ma gradualmente paciosamente umana. Insomma, come piace a noi sfigatoni d'altri tempi.
Con questo è tutto, alla prossima volta, fratelli... di nuovo con un Prospettiva Miyazaki...


La morale di questa storia:
Cavaliere con più dame... bunga bunga all'ospedale.

Next Week (per davvero):
Prospettiva Miyazaki #7 - La principessa Mononoke


Propettiva Miyazaki #6 - Porco Rosso

Ehilà! Ma chi c'è? Gli internzionali lettori di Double Feature, il blog più sottovalutato di tutta Internet! Un sentito grazie ai nostri fan della Federazione Russa e degli Stati Uniti, e ovviamente i nostri amici thailandesi, a cui rivolgo un sentito เพื่อนที่ดีของฉันในประเทศไทย, วิธีที่คุณสามารถเข้าใจสิ่งนี้หรือไม่.

Colpito da un incantesimo durante la Prima Guerra Mondiale che gli ha trasformato il viso, Marco "Porco Rosso" Pagot è un aviatore che si mantiene come cacciatore di taglie nell'Italia di metà anni 20. Quando il pilota americano Donald Curtis lo umilia pubblicamente schiantandogli lo sferraglione, il Nostro decide di prendersi la rivincita, e, nel processo, impalmare Madame Gina, la graziosa ospite di un hotel sulle rive del Lago di Como di lui innamorata. Braccato anche dai Servizi Segreti fascisti Porco Rosso è affiancato da Fio Piccolo, nipote del fido meccanico del Nostro, che, testardamente, decide di seguirlo nella sua fuga/rivincita.
Anche i maiali sanno volare, forniti di mezzi adatti. (Ora la capite questa battuta)
Bestie parlanti, veivoli, belle donne: c'è tutto il necessario per un film di Neri Parenti, ma invece qui c'è sempre Miyazaki (davvero?!) e viene un film bello. Il nostro ci restituisce intatto tutto il suo amore per aviatori e i loro mezzi (paradossale, visto il parallelo guerra - tecnologia che si è già evidenziato per i film precedenti) e lo riplasma in una storia di profonda umanità, sullo sfondo di un'Italia in pieno fascismo (coi fasci qui vestiti molto meglio). Porco Rosso sarà soprattutto una divertentissima storia d'avventura, ma è soprattutto un percorso di ritorno all'umanità di un essere che se ne era estraniato completamente, perchè disilluso da orrori e ferite insanabili. Porco Rosso è, in definitiva, un invito alla speranza e al volo, metaforico o meno. 

Colpo Grosso al Porco Rosso. Cin cin!
Nonostante Fio sia un altro esempio di “Miyazaki Princess”, se vogliamo chiamarle così, il fulcro del film, una tantum, è un masculo:  come da titolo, il carissimo Porco.  Sì, certo, uno stronzo mica da ridere, ma quantomeno uno stronzo buono, tipo Han Solo: tutte uguali le canaglie del mondo, che inevitabilmente calamitano fanciulle con qualche traccia di "complesso della crocerossina"... Poi c'è il fascino della vittima di incantesimo (Po-po-porker face)... Incantesimo un cazzo, caro il mio Marco...
* Nota supernerd: il vero cognome di Porco Rosso, Pagot, è quello dei creatori di Calimero, Nino e Toni, i cui figli avevano collaborato con HM per la serie Il fiuto di Sherlock Holmes). 
Certo, curioso che il protagonista riassuma tutti i tratti dell'eroina miyazakiana: vola, ha un rapporto speciale con gli animali (essendolo egli stesso) ed è ostinato e coraggioso. Insomma, Porco Rosso è un rarissimo esempio di "quota azzurra" cinematografica.

 "Ehi tu, Porco, levale le mani di dosso."
Con questo film tutto volocentrico, Hayao si concede una librata senza precedenti, con sequenze aeree degne dei migliori documentari di guerra. Anzi, meglio, e con più cuore. Un altro gioiellino per il Maestro giapponese, un altra esperienza memorabile per lo spettatore.
A margine: Porco Rosso ha toccato le sale italiane solo nell'ottobre 2010. Dopo diciott'anni. Un fortissimo applauso per noi.

Next Week: La Principessa Monokoke!

Prospettiva Miyazaki #5 - Kiki, Consegne a Domicilio

Piaciuta la parentesi musicale? Nooo?! Impuniti...!
Allora, dopo la parentesina torniamo alla nostra Prospettiva Miyazaki... Non si sa mai che poi l'Hayao si offende. Questa volta, tocca al film del 1989 Kiki, Consegne a domicilio.
E se non vi piace, v'arriva una scarica di mazzate. A domicilio.

Embé?
Kiki è una futura streghetta, sempre affincata dal gatto Gigi: com'è tradizione, a tredici anni deve trascorrere lontano da casa il suo anno di noviziato, possibilmente in una città senza altre streghe. La nostra carissima si stabilisce a Koriko, una cittadina suggestiva dove, grazie alla gentilezza di una panettiera locale, sfrutterà le sue capacità di volo (su scopa) per mettere in piedi una piccola impresa di consegne a domicilio.

Ho un sentore di 1982...


Scontento dalla sceneggiature precedenti e troppo impegnato su Totoro per occuparsene direttamente, Miyazaki si prende la responsabilità di questo adattamento del libro omonimo di Eiko Kadono (e stai un po' attento...) solo nel 1988 e lo porta al livello di opera d'arte, soprattutto grazie ai vaghi riferimenti all'urbanistica svedese e al contesto post-fiabesco (tutto questo parlare di streghe andate, di grandi eroi del volo, di dirigibili...). Ma il punto di forza è proprio il percorso di crescita sempre più doloroso (nei limiti di un film per ragazzi), sviluppato da HM indipendente dal libro originale, che le fonti internettistiche mi dicono essere assai più episodico.

Oh, the humanity...
Il Miyazakone colpisce ancora, in una versione streghesca dei suoi tipici ingredienti: ragazzine decise, sbarazzine e volanti, animali parlanti (solo con la suddetta), magia, senso del fantastico e fiducia tra gli umani tutti. Qui si continua sul filone Totoriano, azzerando l'elemento conflittuale dalla storia, che si sviluppa interamente attorno alle varie facce della vita che la ragazzina deve conoscere ed affrontare - amore e delusione inclusi. Finalmente un film sul crescere onesto e responsabilizzante, dico io - non il "fai il cazzo che vuoi che la gente more lo stessso" di film come, che ne so, boh. Tutto ciò non ha impedito alle associazioni cattoliche americane di tentare di boicottare il film per eccesso di stregoneria.

... ecco, per l'appunto...

Diciamoci la verità, ormai uno si annoia e basta a parlarne bene di questi film. Sono tutti bellissimi, come fai?
Maledetto Hayao, maledetto.


Next Week:
Prospettiva Miyazaki #6: Porco Rosso!

Arrivederci, Mostro! vs. Chokabeck

Nel 2010 sono usciti tutti o quasi. La cosa fa godere in termini di mero gusto musicale, e quasi stupisce in un periodo davvero nero per l'industria musicale. Eppure, classifiche a parte, è stato un anno particolarmente fertile per la musica italiana che non sentirete mai se non ve la andate a cercare. Ed è un peccato che sia rimasta sommersa, visto l'autismo nei media nazionali (abbiamo persino una radio di sola musica italiana che tramette all'incirca il 2, 3% di quello che vien fuori dai nostri studi di registrazione ogni anno), e non aiuta una certa tendenza all'esterofilia - che ok che fanno più e fanno meglio, ma non schifiamoci il cortile, anzi... -, e duecento milioni di altre ragioni che a elencarle sembriamo troppo dei comunisti in cachemire.

Giusto per non parlare solo di cinema, ogni tanto mi piacerebbe fare un po' il termometro del nostro pop italico, tanto per annoiare deliberatamente anche i pochi comunisti in cachemire che ci seguono dalla Federazione Russa. 
Per questa prima puntata, mi occupo di quelli che sono stati, in termini di vendite, almeno, i due dischi italiani dell'anno: Chocabeck di Zucchero e il "primo ovunque" Arrivederci Mostro di Ligabue. Tra i due ci sarebbero i pupilli della De Filippi e Biagio Antonacci, in realtà, ma, visto che ci occupiamo di due cose per volte e almeno una delle due vorrei che mi piacesse (al di là del fatto che Zucchero fa il culo a Toto Cutugno all'estero e così via), ho scelto il nuovo disco dell'Adelmo Fornaciari.

Piacere pesce...

Non perdiamo tempo e andiamo subito al sodo con Arrivederci, Mostro! di Ligabue. Mostro lo dirai a tua sorella, 'a Toro Seduto.

1. Quando canterai la tua canzone
"Arimortacci, Vostra!" inizia col botto! Un riff, con la batteria e il basso che sembrano un gruppo rock californiano alla MTV. E Ligabue? Ah, arriva dopo.
Prosegue il tema cardine del Luciano: il mondo è cattivo, vivi come ti pare, e fanculo chi ti dice qualcosa- "lasciamo gli altri a commentare". Eh ok. C'è bisogno di dirlo ogni volta che esci con qualcosa?  Sto discorso lo abbiamo già fatto qui, ma puoi anche sbattertene di quello che dicono, senza che gli dedichi così tanta attenzione. Qui si definisce "Ciurlare nel manico", Lucianone.

2. La linea sottile
Oh, eccolo: Luciano ha appena realizzato che alcune cose sono una cosa ma ne comportano/conseguono anche un'altra, e che questo comporta il fatto che non possiamo isolarci dal mondo medesimo (Paolo Conte escluso). Wow. E, nel frattempo, ci sta anche la strizzatina agli aficionados ai lettori de La Casta ("i primi che mangiano tutto e gli ultimi pagano tutto quel conto"); agli ottimisti di ritorno ("i traguardi che sono partenze ed un tramonto che è come un mattino"); ma anche ai giovani compratori twilightiani ("A mia volta  ti apro la casa / e ti trovi davanti a un vampiro / che a mia volta devo succhiare / tutto l'amore che riesco a rubare"). Oltre ad essere un esempio splendido di pigrizia lirica e di lieve disturbo ossessivo-compulsivo, mi si rafforza la convinzione di uno che si sia rifugiato nel ruolo del Dalai Lama al Lambrusco, per potersi giustificare in qualche modo come "poeta che parla la lingua dei ggiovani". Ma "cosa pensi di fare, da che parte vuoi stare?" Diccelo, una volta per tutte, Lucianone.

3. Nel tempo
È tornato il gruppo rock californiano di prima in versione "C'ero - Manca". In questa canzone, pensate un po', ci sono: Zorro, Blek, Braccobaldo, Lavorini, la 1100, De Gregori, i Police, Berlinguer, Moro, Falcone e Borsellino. Manca Vermicino e ci siamo portati a casa "I migliori anni" versione catto-comunista, Lucianone.

4. Ci sei sempre stata
E vai con la ballata e gli accendini. Passabile, con tutti i crismi della canzoncina dell'ammore un po' emancipata, ma va bene così, Lucianone.

5. La verità è una scelta
Mi distraggo un attimo e arrivano i Nine Inch Nails! No, ma cosa dico... è Ligabue. Bravo Liga, arrangiamento coraggioso per un disco pop-rock italiano. Sì, quindici anni fa. Ah giusto, è colpa del produttore! Cazzarola, Lucianone!
N.B: In questa canzone, torna a grande richiesta l'analogia passo - tappe dell'esistenza. Guest starring: il nichilismo da cortile contro i politicanti. Questa volta però c'è un tema nuovo, e  questo mi pare pure importante: la necessità della coerenza etico-morale, di veglia perenne contro la prevaricazione. E parla male di Berlusconi, se devi, cazzo!
Pezzo migliore del disco? Pezzo migliore del disco, ma di tanto così.

6. Caro Francesco
Quando la dedica diventa un insulto. In questa canzone si parla essenzialmente di ipocrisia, come in metà di canzoni di questo disco. E basta. I giornali corrono dietro a ste cose: d'altronde, quando prendi  un classico della canzone d'autore italiana, cerchi di continuarlo con altri mezzi e ottieni solo una palla di un didascalismo unico, viene logico. Ma soprattutto, non potevi chiamarlo per telefono Francesco, eh, Lucianone? Cos'è un problema soffrire da soli? Già meni il torrone in TUTTE le tue canzoni, Lucianone.
Insomma, vai a chapà i ratt, Lucianone.

7. Atto di fede
A supporto del Luciano, arrivano i Coldplay, le chitarrine di Avril Lavigne e gli accordi maggiori che la canzone minchia si apre. Il testo è puramente pretestuoso e non c'entra una mazza con il pure condivisibile ritornello. Sì, se si perpetua la litania del carpe diem sembra che né Ligabue né la civiltà occidentale sia in grado di giustificarsi, vero, Lucianone? Premio della critica per “Vivere è un atto di fede nello sbattimento”, quanto siamo ggiovani, eh, Lucianone?

8. Un colpo all'anima.
Un po' anticipando la moda degli elenchi di Fazio, questo singolo è emblematico di come il Luciano nei momenti di stanca scriva le canzoni stilando liste un po' a caso, con un ritornello e una qualche catafora da appicicare tanto per garantire agli acquirenti la memorizzazione rapida. A tre quarti del pezzo, arrivano i Cream e fanno un solo e pure quelli che credono che Ligabue sia un esempio di rock italiano sono contenti. Un colpo al cerchio e uno alla botte, eh, Lucianone? (anyway, cazzo significa un colpo al cerchio e un altro all'anima?)

9. Il peso della valigia. 
La vita è una gran fatica, c'è da resistere, vai vai che poi alla fine forse arrivi. A soffrire si migliora, Lucianone?

10. Taca banda. Ooh, finalmente un pezzo un po' più genuino. Vai col blues. Sempre lista, sempre stesso disincanto ritrito, ma attaccato a questo filastrocchismo il cinismo è sempre più efficace. Peccato che sfumi. Odio quando sfumano, Lucianone.

11. Quando mi vieni a prendere.
E parte il fazzoletto. Ligabue interpreta il bambino, e viene un po' da ridere. Gli effettini, shocking  le spatoline, la maestra, il latte, tutto ben incastrato nella retorica del piagnucolone. Sarà che mi fan girare quando tirano in mezzo i bambini, ma questo pezzo è fondamentalmente inutile: insomma, Vermicino che mancava in 3, è qua. Il cerchio è ora completo, Lucianone.

12. Il meglio deve ancora venire.
Speriamo, eh, Lucianone?

Insomma: Non posso nascondere che buona parte dei commenti qui sono mossi da un mio genuino detestare il rocker di Correggio, ma penso siano ben evidenti e argomentati i motivi: la pigrizia compositiva, tematica e di stesura, il totale spaesamento etico-morale che traspare nei testi, nonché lo sproporzionato seguito a lui dedicato (sintomo second me di un certo pressapochismo più generalizzato, ma tant'è...). In questo disco, si aggiunge una produzione esageratamente plasticosa e di molto glassata rispetto alla relativa ruvidezza del passato - forse proprio in uno sfoggio d'onestà.
Per il resto, non è cattivo.

Fine?
Fine. Tocca a Sugar!


1. Un soffio caldo
Si inizia cona Zucchero fa il Manzoni, a volo d'angelo sui campi e poi giù a limoni. Qui Guccini non è evocato, come nel disco poc'anzi recensuto, ma c'è davvero. E quasi non sembra lui. A sostegno del pezzo fischettiare che si presta ad armonizzazioni bucoliche mica da ridere, che minghia sembra che sta già arrivando Brian Wilson e il Pet Sounds. Poi questa con l'ukulele si fa una meraviglia.

2. Il suono della domenica. 
In lingua anglofona, il testo l'ha scritto Bono. Continua il filone agreste, forse anche meglio. Immaginatevi Zucchero col chitarrino sotto il portico al tramonto, o per strada che cammina da solo. E potete anche immaginare meno, visto che le copertine dei dischi son sempre così... Comunque, qui abbiamo l'altra faccia della medaglia: quella del presente, non più dorato e caloroso come prima (con stoccata religiosa "ho visto fedi false fare solo guai"-- che impunito che sei, 'a Fornacià). Però, c'è sempre la speranza che in fondo 'il suo della domenica' rifiorisca....

3. Soldati nella mia città. 
Metafora leggermente datata Seconda Guerra Mondiale, dove finalmente un cuoricione può donarsi alla Ricostruzione. Peccato, pezzo meno riuscito del disco, ma lo si perdona, dai.
4. È un peccato morir. 
Pasquale Panella, sì lui... quello di capolavori (e non scherzo - beh, forse nel terzo caso un po' sì) come: questo, questo e questo. Qui il Vanera si è fatto di cicoria e fa le Bucoliche di Virgilio Sangiovese edition. Tutti a far l'amore nelle vigne per celebrare la vita. Spetta, sbagliato pezzo.
* Oscar per la miglior frase sulla Trinità: "Gloria a te nell'aria / quale tu sia / solo uno o solo in compagnia".
** Qualcuno mi spiega il mistero di "fare 101"?

5. Vedo nero.
Finalmente un nuovo classico sulla Patonza e sulla frustrazione da mancanza di coccole - con le relative conseguenze - da cantare sui pullman e scrivere sui muri di questa città. Mimmo Cavallo - paroliere - resuscita i proberbiali doppi sensi su "Shock the Monkey" di Peter Gabriel, vince l'Oscar alla Virilitàcon "la vedo nera, ma nera nera, ma non mi arrendo: ho alzabandiera".

6. Oltre le rive
Praticamente il remake di Diamante con un pizzico di She's My Baby, ma stavolta scrive quello che Tony Renis ha definito "il Francesco De Gregori del 2000" (non chiedetemi perchè....), ovvero Pacifico. Lasciamoci trascinare nel limone duro in questo capolavoro d'assonanze fonetiche, mentre Zucchero ci parla di uno stalker che arriva a occupare abusivamente una tipa. No, scherzo: è il drammatico percorso di un uomo separato a forza dalla squinzia (morta?)

7. Un uovo sodo
Stesso argomento, in simpatia. Da consumare dopo tre minuti e quindici. 

8. Chocabeck
Zucchero + Pasquale Panella + Brian Wilson + pompa truzza: il mondo ora può finire serenamente. Sulle note di Mamma Maria dei Ricchi & Poveri, of course.
Oscar a Panella per: "Di più di più, l'amore fu / un calcio in culo e tante stelle lassù".

9. Alla fine
Si parte dal bucolico, e si va nel trascendente. Probabilmente un futuro classico gospel zuccheresco, zuccheriano, zuccheroso. Ma penso che tutti sognino di spirare (sì, ok, sto generalizzando) nella natura.

10. Spicinfrin Boy
Qui il Nostro si guarda da ragazzo (spincifrin era un appellativo addossato all'Adelmo dalla sua nonna) e unisce, come in Chocabeck, dialetto e inglish in un altro bel spaccato di vita.
 
11. God Bless The Child
Andiamo sul melancoepico galoppante come solo l'Adelmo sa farli. C'è un po' di Freddy Mercury in Who Wants To Live Forever, c'è un po' di prosciutto crudo... c'è tutto, però non è che alla fine attecchisca molto. Peccato, ma grazie lo stesso, zio Adelmo.

Insomma: 
Da un punto di vista puramente pragmatico, questo è il miglior disco italiano dell'anno. Mi spiego: è senza dubbio il miglior pop che possiamo produrre ed esportare, che venda e che abbia un pubblico quantitvamente incisivo. La qualità direi discretamente luminosa del disco - e il divertimento che la impregna - sono tutto grasso che cola.
Sembra un turarsi il naso, ma non lo è del tutto.


La morale di questa storia: 
Quando il gioco si fa duro, porgi l'altra guancia.

Soonissimo:
Prospettiva Miyazaki #5 : Kiki, Consegne a Domicilio


Prospettiva Miyazaki #4 - Il mio vicino Totoro

Pant-pant-pant... che fatiguera la vita, ragazzi! Non riesco a starci dietro a sti post miyazakiani. E un po' mi manca il vecchio Double Feature, quello cazzonissimo dei primi tempi... ma tornerà, cari amici spettatori, tornerà, come è tornato Mike.
La prospettiva procede, visto che è sua prerogativa naturale quella di prospicedere... quest'oggi tocca a Il mio vicino Totoro 

È il 1988, un anno drammatico per la storia dell'umanità. Viene approvata la Legge Mammì, Achille Occhetto diventa segretario del Pci, George Bush Sr viene eletto presidente degli Usa. A salvare l'anno solo questo. Ah, e Il mio vicino Totoro. Hayao Miyazaki sforna un film più leggero e di pura evasione, un omaggio alla sua stessa infanzia e - anvedi sto incorreggibile cicciobello - all'infanzia del genere umano. E, nel processo, vien fuori quello che probabilmente il film più importante dello Studio Ghibli.
Vi presento Satzuki (a sinistra) e Mei (a destra). No, non sono di Faenza.
Il film parla fondamentalmente di un sogno ad occhi aperti: le sorelle Satzuki e Mei si trasferiscono col padre nella campagna giapponese - nel satoyama, stando al WikiWiki. Dapprima, le simpatiche bimbette notano che il vecchio casolare in cui si trasferiscono è infestato da misteriosi riccetti neri che spariscono misteriosamente; poi la più piccola, Mei, seguendo uno strambo animaletto s'imbatte nella tana del gigantesco e affettuosissimo Totoro! È l'inizio di un'avventura oltre ogni loro immaginazione...
Diamine, dovrei scrivere i riassuntini delle guide TV...
Con il Totoro, Miyazaki dimostra che un altro storytelling è possibile: uno in cui a mettere in moto una storia non sia il conflitto (in senso lato, latissimo), ma la curiosità. Come nella vita di ognuno, come nella nostra inarrestabile commedia umana, in Totoro ci sono tutti gli ingredienti: più saporiti  allegria, malinconia (a proposito, qui, per la prima volta, abbiamo una famiglia completa -  o quasi, la madre è malata e si vede in pochissime scene, e la cosa è molto autobiografica, visto che la mamma di H&M era malatissima di tisi spinale), avventura, scoperta, catalizzate da un calore umano che, come un autotreno (no-prize per chi coglie la citazione...), permea ogni fotogramma della pellicola. Un'esperienza emotivamente rigenerante per grandi e bambini, e al solo prezzo del biglietto del cinema. O forse neanche quello.

Totorain
Una fetta molto importante di quello che avete visto o vedrete in questo film è responsabilità dell'art director Kazuo Oga, che, oltre ad aver plasmato in punta di grafite lo stupendissimo Totoro - infilato di corsa nel logo dello Studio Ghibli -, ha un po' imposto il taglio estetico del film e la sua vivida e calorosa 'campagnolità' scintoista. Ma è appunto proprio Totoro ad aver folgorato l'immaginario dei bimbi giapponesi: per loro, è un po' come il Gabibbo da noi vent'anni fa. Solo molto meglio.
In sintesi, Totoro è un film che ti viene da consigliarlo a tutti perchè ti scalda il cuore, è commovente e scioglie anche i pezzi di marmo senza far succedere tragedie spaccacuore, e dove tutto è possibile, a patto che si abbracci il fantastico. E quasi quasi ti viene voglia di fare un figlio per vederlo con lui.
Ah, e poi c'è pure un seguito (Mei and the Kittenbus), ma dovete andare in Giappone al Ghibli Museum a vederlo.

Non dire gatto se non c'hai il bigliatto.
Totoro ha fatto esplodere Miyazaki all'estero - che non è esattamente una bella immagine, soprattutto considerati i precedenti di Pearl Harbor. Lui, dopo la brutta esperienza di Nausicaa, amputato e detrupato tipo Renato Balestra dall'adattamento americano, impone che non si cambi una virgola del suo film. la Totoro mania dilaga, e allatta una generazione intera di narratori per immagini...

Guarda chi ti appare... a sinistra!

Sempre più prossimamente:
Arrivederci, Mostro! vs. Chocabeck

Next week:
Prospettiva Miyazaki 5: Kiki, Consegne a Domicilio!

Prospettiva Miyazaki #3 - Laputa, Castello nel Cielo

animaVi sono mancato, eh...?


Ok, andiamo avanti!
Bentornati su DoubleFeature, ma soprattutto alla nostra sudatissima Prospettiva Miyazaki. Oggi ci occupiamo di un film che credo sia stato pesantemente adattato nella versione spagnola, ovvero Laputa - Castello nel cielo, conosciuto anche come Castle in the Sky. Questa arriva dopo...
Laputa (1986, e segnatevi la data, perchè è tipo Anno Domini) è il primo film che Miyazaki realizza sotto lo Studio Ghibli, nato nel 1985 da quelle menti ingegneristiche dello stesso HM, del collega Isao Takahata - un omino tanto simpatico che sembra Gianni Morandi, ma con gli occhi chiusi. E giapponese -  e del produttore Toshio Suzuki. Attorno allo Studio Ghibli c'è una fama quasi leggendaria - e, d'altronde, vedendo i risultati, la cosa è ampiamente giustificata.
Ma veniamo al film.


Fuggita fortunosamente da un tentativo di rapimento da parte di un gruppo di pirati, la giovane Sheeta scampa da morte certa grazie a una misteriosa pietra  - chiamata gravipietra - ereditata dalla madre. Il giovane minatore Pazu si prende subito cura di lei, ma ben presto si trova nel mezzo di una doppia fuga, sia dai pirati che dal malvagio Muska, esponente del governo e liaison con l'esercito, che vuole impossessarsi della pietra.
Scoperto l'immenso potere della pietra e il suo retaggio millenario, Sheeta viene però rapita da Muska, che si impossessa del talismano: salvata all'ultimo minuto da Pazu, unitosi alla sgangerata banda di pirati di cui sopra, guidata da Mamma Dola, si mette alla ricerca della leggendaria isola volante di Laputa, ultimo avamposto di un'antichissima civiltà. Ma il misterioso Muska li tallona...

Fanciulle Volanti Non Ancora) Identificate....
Laputa è senz'altro un film di molto più riuscito di Nausicaa. Ed è tutto dire. Come abbiamo avuto modo di disaminare settimana scorsa, Nausicaa nasce come sintesi di un manga in pubblicazione, e soprattutto si trattava del primo film la cui responsabilità artistica era interamente di Miyazaki. Un primo passo un po' pesante, ecco.
Laputa si fa forte di questa imprescindibile "prima" esperienza, però facendo un passo ulteriore verso la compiutezza, sia per quanto riguarda la sceneggiatura - più compiuta e focalizzata -, sia per quanto riguarda l'imagerie, che aggiunge al consueto mix di sense of wonder e umorismo la deliziosità del trance de vie. Quando la somma è maggiore degli addendi insomma. (con questo, esaurisco i forestierismi per la settimana)
Orgogliosamente, Miyazaki porta avanti i suoi personaggi archetipo, specie per le protagoniste femminili: Sheeta, il fulcro del film, è nobile per lignaggio e propensione, idealista e coraggiosa. E, qui come emblema della sua eredità, vola. Come ogni maschio miyazakiano, c'è azu, riciclo del Peter di Heidi, un ometto testardo e un po' allocco, forse il comprimario maschile più idealista tra quelli creati da Miyazaki. Curioso come entrambi siano orfani (Nausicaa e Clarissa lo erano), e curioso anche come il loro rapporto si sviluppi come prossimo a una relazione di coppia.
Dola invece si propone come maschera estremamente originale, una sorta di versione di Lupin al femminile, con una maggiore attitudine al comando e una maggiore saggezza, ma con la stessa dirompente vitalità, espressa a chilate di cibo ingurgitato,  attraverso la prominente fisicità e soprattutto con una premurosità burbera che neanche la mamma di Bud Spencer.
Infine, il cattivo: Muska, con esercito al seguito, polarizza il male nella sua persona, e con esso tutti i consueti valori negativi di prevaricazione, violenza e smania di potere. Il lato oscuro di Laputa, come abbiamo modo di scoprire...

Questa mamma è meglio della tua.

Al consueto fusto di manicheismo sfumato e ecologia, H&M innesta un temone da Battlestar Galactica, ergo la caduta di una civiltà per mano della degenerazione tecnologica: Laputa, al centro di una vera e propria mitologia demiurgica (Laputa come l'isola volante del Gulliver di Swift, ma anche al centro di molti avvenimenti mitologici tramandati nei secoli), è infatti caduta per l'eccessivo sviluppo tecnologico, che, come simboleggiato dal robot-giardiniere, non viene mai rigettato dall'autore, che auspica semplicemente che venga razionalizzato.
Abbiamo anche un sano tocco di comunismo, con Pazu lavoratore nelle miniere, sorridente strizzatein d'occhio del Miyazaki alle lotte dei minatori gallesi degli anni 80.

!
Il film guadagna in intrattenimento puro grazie a un intreccio serrato e preciso, personaggi spassosissimi e un taglio avventuroso che lascia intravvedere un fertile sottotesto. Anche dal punto di vista registico, Miyazaki prende le già suggestive sequenze aeree di Nausicaa e alza la sbarra, sia grazie a un design di navi e personaggi ancor più coraggioso. e alla coerenza nel mantenere alto il lirismo e l'eleganza dell'insieme,senza perdere in suspense e suggestione. Laputa è un film che si sviluppa in verticale, sia nelle scenografie che nell'intreccio - ed nel quale traspare l''vidente l'innamoramento di HM per l'arte, l'architetura e la cultura europea.
A contorno, un passo ulteriore nello steampunk (quasi a schiaffi in faccia nella sequenza dei titoli), la spassosa comicità slapstick (dove davvero si intuisce la sapienza e l'attenzione maniacale degli animatori), oltre alle autocitazioni (gli scoiattolo-volpe di Nausicaa).
Di seguito, i titoli di testa e di coda saldati in un tutt'uno, per trasmettervi via http un po' dell'atmosfera incantata del film. See you soon, fellas!


Next time:
Il mio vicino Totoro!

Somewhere along the line:
Arrivederci mostro vs Chocabeck!