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Prospettiva Miyazaki #1 - Lupin III: Il Castello di Cagliostro

Carissime e carissimi, eccoci tornati! Scusate la pausa forzata, ma la vita e i suoi corollari premono e ci si può far poco.

Ma bando alle ciance. Come probabilmente ho accennato mesi or sono, la normale programmazione di recensioni doppie sarà interrotta e amplificata da una amorevole rassegna dedicata a uno dei registi giapponesi, nonché di animazione, più importanti degli ultimi trent'anni: Hayao Miyazaki. Tenteremo di coprire le sue produzioni cinematografiche più importanti, sempre con la simpatica sferzata di affettoche contraddistingue noi (me) di Double Feature.
Ne approfitto per salutare, oltre al nostro esiguo ma fedele zoccolo duro di lettori tutto italiano, i possibili visitatori esteri statunitensi, thailandesi (?!) e russi. Non so come fate, ma vi stimo tantissimo. E già che ci siete, fate una capatina sulla nostra pagina Facebook e Twitter, che al resto pensiamo noi.

Ma cominciamo...
Hayao Miyazaki è questo omino qui:


Lo conoscete indirettamente, di sicuro. Ha diretto alcuni episodi di Lupin III, nonchè il lungometraggio Il Castello di Cagliostro (di cui frappé), ha collaborato all'anime di Heidi, ha creato Conan, ragazzo del futuro. Insomma, ha fatto parte anche della storia delle vostre vite.
Ebbene, perchè dedicargli addirittura una retrospettiva? Perchè? Perchè praticamente lo conoscevo solo di nome e, per quanto affascinato dalla sua estetica, non mi ero mai affidato completamente a un suo film. Per cui, ho deciso di darmi anima e corpo a TUTTI i suoi film. E la cosa sta rivelandosi fertile, al di là di questa serie di reviews.

Il Castello di Cagliostro è il primo lungometraggio dell'Illustrissimo, e, nonostante non sia farina del "suo" sacco (si inserisce pur sempre nell'enorme produzione dedicata a Lupin partorita dalla mente del mangaka Monkey Punch) quanto le pellicole successive, già rivela qualche germe delle tematiche che andremo a eviscerare nei post seguenti.

The Fast and the Furious.
Il sempre arzillo Arsenio Lupin, affiancato da Jigen, si mette sulle tracce della leggendaria dinastia di falsari della dinastia del Caprone, nascosta nel minuscolo principato di Cagliostro: nessuno prima di lui era riuscito a sopravvivere tanto a lungo da portare a risoluzione questo mistero. Il nostro arriva a Cagliostro proprio pochi giorni prima del matrimonio della giovanissima principessa Clarissa con il crudele Conte di Cagliostro, il cui solo interessamento nella ragazza è dovuto al di lei anello, elemento chiave per accedere a un antico tesoro. Ovviamente, il buon Arsenio non perderà l'occasione per impicciarsi...

Fifa in cima a un palazzo a strapiombo sul nulla.
Sul tradizionale impianto da "princess in distress" in salsa Lupeniana (in breve, per gli astemi: il ladro-gentiluomo si ficca in una valanga di guai da cui si sfila grazie alla propria genialità - schivando sempre di un soffio le manette dell'Ispettore Zenigata), Miyazaki trapianta alcune delle tematiche del cinema che di lì a poco farà sue: l'avventura nel reame misterioso e fuori dal tempo, ultima testimonianza di un mondo più primitivo e autentico (Atlantide anyone?), contrapposta al Male metallico e ottuso della violenza militarizzata; la principessa nobile che costituisce l'ago della bilancia, e l'ultima possibilità di redenzione (ma questo è un topos più comune, sono d'accordo).
Però c'è ancora un certo manicheismo "con gradiente" nella caratterizzazione (proprio della serie d'altronde), specie nel Conte e nei suoi scagnozzi, bidimensionalmente negativi (spero non si siano offesi). E, ancora più evidentemente, non c'è ancora nessuno di quei colori steampunk che da Nausicaa in poi diverranno organici all'immaginario di Miyazaki.
United Nations of Zenigata.
Anche l'intreccio è meno meravigliosamente sfilacciato e "suggestivo" di altri film del grande Hayao, ma più tradizionale e aderente al modus narrandi della serie televisiva, con le dovute eccezioni: la maravigliosa sequenze dell'inseguimento in 500 che apre il film e quella negli ingegnosi sotterranei del castello. Ma ci addentreremo nella sontuosa narratività anarrativa miyazakiana nei prossimi post...
L'ora e trentacinque de Il Castello di Cagliostro commuove per la naturalezza con cui emulsiona  l'avventura e la commedia con il genere heist, colorandolo di una poesia e di uno stupore jazzy che incanta ancora le platee televisive che si approcciano alla megatterica saga del ladruncolo francese.
Ma dalla prossima pellicola, le cose si compicano.

Next Time:
Ciocabek vs. Arrivederci Mostro!


Next on Prospettiva Miyazaki:
Nausicaa della Valle del Vento

Cemetery Junction vs. The Wrestler

... ovvero ematomi della crescita.
Giovini e meno giovini, questa settimana affrontiamo un po' la materia viva di tutte le storie del mondo: il cambiamento. Il momento che ci definisce umanamente per come lo affrontiamo, il momento di soglia che cambia tutto - prospettive, opinioni, orizzonti e, se va bene, anche salario.
Nella vita di un uomo, e con uomo intendo essere maschile benestante occidentale, i momenti di soglia sono fondamentalmente due: la fine dell'adolescenza e il pensionamento. In mezzo, gli strofinamenti del bunga bunga o, per i meno virili, quelli del carling.
Che sia stata la sorte o il capriccio o una divinità che vuole comunicarmi qualcosa, mi sono capitate in serie due pellicole che pescano proprio ai già elencati momenti pregni per trarre conclusioni per certi versi opposte sull'umana sorte. Procediamo.

Il film poi è un po' più serio. Giusto un poco.
Il primo dei film in playlist è Cemetery Junction e racconta al solito modo la solita storia dell'omino che ha dà maturà, uccidere il padre (metaforicamente però), andarsene di casa e diventare adulto.
A parte: credevo che non fosse ancora uscito in Italia - anzi, credevo che non avrebbe toccato mai sala. Invece è già passato e dimenticato, con il titolo pseudo-scientifico L'ordine naturale dei sogni. Ma morire, no?
Fin dal titolo, Cemetery Junction è più molto autobiografico (per quanto romanzato) della media dei film di maturazione, nel senso che è fondamentalmente la storia del suo autore, Ricky Gervais (uno divertentissimo che ha inventato robe tipo The Office e Extras, e una bordacchia di altri film, ma da noi è conosciuto per lo spassosissimo ruolo del curatore di Una notte al museo), scappato da un paesino della provincia inglese, come il Cemetery Junction del titolo, per cercare fortunaaltrove... Già che c'era, s'è fatto anche parecchio più bello, come vedete qui sotto (nella prima foto Christian Cooke, interprete del protagonista Freddie Taylor; nella seconda Ricky Gervais, interprete del padre di Freddie).

Farsi più fighi no, eh, Riccà?
Quindi sceneggiatura prevedibilissima e in piena formula (con varianti demenziali) ma ben eseguita e portata sullo schermo da attori giovani e meno giovani di grande bravura. E Gervais è garanzia anche di grandi interpretazioni. Risate più o meno smorzate, qualche lacrimuccia, e la solita, stupenda metafora sessuale del treno chiudono la partita.
Straniante la fotografia agée che da sola spalma una bella patina di senso e prospettiva in più sul metraggio totale: che le decorazioni pubblicitarie a base di falli giganti e le gaffe del giovane Snork non siano solo un espediente comico, ma il quid nostalgico di un'adolescenza da lasciare e tenersi nel cuore al tempo stesso? Of course...
Nota al merito parziale per le paraculissime track d'epoca (il film è ambientato nel 1973), ma Rain Song dei Ssseppelin a fine film rassicura ogni palato e offusca di commozione ogni retina.
Bei denti, co-protagonista! E perchè nelle locandine in primo piano ci sei tu? Che, mi state pigliando pu 'u culu?

The Wrestler è il grande film che non ti aspetti. O meglio, dopo due anni di megarecensioni, uno se l'aspetta anche.
È una poesia, e come tutte le grandi poesie toglie il fiato dall'angoscia. (E questo dovrebbe già risolvere la recensione). Alcuni artisti della narrazione hanno sottolineato come i finali in sospeso siano sostanzialmente delle ammissioni di vigliaccheria. Qui no (e difficilmente avrei scritto la frase precedente se non fosse così - oppure no?). Per propinarvi il mio pensiero cattocomunista, purtroppo mi è necessario spoilerare quasi tutto. Ergo regolatevi.
MickeyDistruzia
The Wrestler è un film quasi tutto di spalle, e quasi mai di primi piani. Se il nostro lottatore ha un'identità, ce l'ha nella lunga parentesi (in buona sostanza, il film) in cui è costretto a guardare in faccia i detriti della sua vita fuori dal ring. Quando non rimane più niente nemmeno di quello, quando ogni barlume d'amore e di vita reale gli viene sottratto per via di ciò che lui è, il lottatore capisce che l'unica strada per sopravvivere è sacrificare la sua umanità. Ogni scelta dell'Uomo porta a un vicolo cieco. Ogni vicolo cieco allo stesso baratro. O meglio: il vicolo cieco che imbocca lo conduce comunque alla distruzione, ma contemporaneamente lo consacra nell'alto dei cieli. Non più come uomo, appunto, ma come leggenda.
MickeyCornetta
Che questo film sia un concentrato d'arte, di genio o di quello che volete*, ma il lottatore percorre un arco opposto a quello codificato in narratologia:
-        L'eroe non si trova in una situazione iniziale di normalità minacciata; anzi, per quanto decadente, l'inizio è l'equilibrio ideale per l'eroe/leggenda, lo status quo che, per la leggenda, dovrebbe durare per sempre.
-        Le circostanze obbligano l'eroe ad affrontare con un mondo diverso dal suo, ma qui, costretto a non combattere per sopravvivere, la leggenda "si riduce a" uomo.
-        L'eroe non torna a casa diverso, maturato, portatore di saggezza e di un nuovo equilibrio; l'eroe torna a casa distrutto, disilluso, disumano. Nell'ultimo barlume di umanità, cerca la sua lei che era venuto a fermarlo. Ma lei non c'è più. L'eroe imbocca il suo vicolo cieco, e buona sera.
In buona sostanza, The Wrestler è un apogeo dell'anti-eroismo, e lo applica all'artista, all'eroe, alla leggenda: per loro crescere non vale, la loro esistenza è il sacrificio della vita per gli altri, la loro responsabilità è solo verso di loro. Mi viene in mente il sacrificio di ventun'anni di vita di Sun Su Kyi.
Aspettiamo con ansia di vedere Black Swan a marzo, nuovo film di questo geniacco di Darren Aronofsky, per vedere come si compie questo tema (The Wrestler e Black Swan sono, nelle intenzioni del regista, due facce della stessa medaglia).

* Nota Elitaria: E grazie a Dio non c'è niente di cristologico, non fosse altro perché ci viene tolta di mezzo la simbolizzazione del corpo morto, e ancor di più la resurrezione...

MickeyDelizia

Ma torniamo a fare i cazzari.
Raramente un attore ha raggiunto livelli di credibilità più alti di Rourke in questo film. E non per la menata della bravura, o per la menata della sua vita terribile – cioè sì, è anche così. Ma per i capelli ossigenati. Che tocco schifosamente meraviglioso. Non ci sono più i capelloni di una volta perché Mickey se li è mangiati tutti, e spero si mangi anche Nicholas Cage per riportare equilibrio nella Forza (dei Capelli).
Poi, Mickey dice una cosa su Cobain su cui il mio Io-hard rock sostanzialmente concorda, ma il mio Io-indie no – dovete sapere che fare il critico musicale mi ha costretto a sviluppare una forma embrionale di schizofrenia – che è: «Quei gruppi sì che erano forti, poi è arrivato quell'effeminato di Kurt Cobain dei Nirvana e ha rovinato tutto». Ebbene, è vero. Ma va bene anche come le cose sono andate. Certo, andrebbe meglio anche in un altro modo. Ma cambiamo argomento che mi sto confondendo da solo.
Ha un difetto questo film? Sì, i tatuaggi. Io odio i tatuaggi, specie sul corpo femminile (e qui ce n'è tanto e a buon mercato). Mi spiace, genere femminile, sei perfetto come sei, di inchiostro non ne aggiungerei. Poi oh, gestitevi voi, ma a me non piacciono. Uffa.
Insomma, questo The Wrestler è un capolavoro? È una strunzata? Non è un film leggerissimo, ma credo che con un po' di empatia e di compassione, anche il più accanito fan di Alvaro Vitali possa cogliere l'inesorabile poesia che regge questo gran pezzo di celluloide.
Alla prossima volta, compaňeros. Mi prendo una pausa dal cinematografo, però...

Morale: 
Crescere vuol dire avere il coraggio di non strappare le pagine della nostra vita, 
ma semplicemente strappare gli occhi per finta al nostro avversario.


Coming Soon:
Prospettiva Miyazaki

Inception vs. Prima ti sposo poi ti rovino

Cari amici, bentornati alla nostra dabolfiturata settimanale! Tutto bene, ripresi dalle paturnie del 7 novembre? Sì? Bravi! No? Bravi lo stesso.
Oggi sul banco degli imputati due film in cui è eminente l'uso di camicia e cravatta: Inception, fresco fresco di sala, diretto dal Christopher Nolan, e Prima ti sposo poi ti rovino, diretto, pensate un po', non da un Cohen solo, ma da due. Fratelli. Che roba esagerata, eh?
Abbiamo davanti due (tre) dei più importanti registi americani degli anni 90 e 00, forse quelli della "Nuova" (Nolan ha quasi quarantanni - i Cohen vanno per i 55) Leva Cinematografica che più si avvicinano al concetto di "autore" e che riescono contemporaneamente a far bene in sala. Indico loro perchè al momento non mi vengono altri esempi - come sempre, spazio agli insulti nei commenti.

Dopo la prima di Inception (attenzione: metafora)

Inception parte subito con un affastellarsi di piani di realtà e di sogno che ghezzoh!-che-situation: la storia è quella di un gruppo di teppisti professionisti, capitanato da  Dom Cobb-Di Caprio, ingaggiato da un magnate giapponeso per mandare in rovina finanziaria il suo concorrente in odore di monopolio. E come far ciò? Innestandogli per via onirica il pensiero di scindere la sua uber-società in più parti e disperdere il cucuzzaro tanto sudato da ppapà. Delle robe che manco la Smorfia... e che manco Morfeo se è per quello.
Avvertenza. Usciti di sala, la sensazione è quella di un intasamento neuronale: per un'oretta, non si riesce a pensare in modo lineare... Inception prevede il download di una tale quantità di informazioni e l'elaborazione di una tale quantità di interconnessioni che per le due ore e passa del film e per la successiva mezz'oretta ogni tentativo di giudizio-elucubrazione viene automaticamente abortito da dei centri sinaptici a caso che potrei inventarvi qui su due piedi.
Poi subentra il dubbio (che già in realtà era sorto anche qualche tempo dopo il glorioso precedente nolaniano, Il Cavaliere Oscuro): ma sto qua, sto Christopher, è un genio o è un artista della presa il naso? La tentazione di rispondere in modo estremamente paraculo non mi è estranea, vi rassicuro... per cui, ancor più paraculamente, terrò in sospeso il giudizio almeno per altri sei/otto anni.
Nell'attesa, godiamoci questo bombardamento meme (altra cosa assai rara per un film nell'epoca del WWW del computer).
"Mi crolla il mondo addosso..."
Quel che è certo è che Inception ha il grosso merito di essere un film smisurato, e di questi tempi di film davvero smisurati non è che se ne vedano in giro molti. Anzi, non se ne vedono e basta. Per una volta, si esce di sala con la sensazione di aver creato e piegato un Universo senza lesinare...  un'ambizione esagerata, ma, attenzione, non iperbolica. Esagerata perché la pellicola prende a spallate i water closetd cinematografici desaturati che mamma Hollywood ci propina ogni venerdì. Semplicemente, Nolan abbatte il nostro timido orizzonte di omuncoli  e gioca con "la materia di cui sono fatti i sogni dei sogni" (cit.): certo, il risultato sta alla psicologia come Matrix stava a Platone o a Hegel (e giustamente, che cazzo, siamo anche al cinema!), ma è da premiare il tentativo di tirarci fuori dalla noia di scenari etici da cortile dell'asilo e scaramucce melodrammatiche senza le quali la razza umana ultimamente non sembra in grado di comunicare. Ed è forse uno dei motivi per cui Inception ha racimolato tanta grana è proprio questo - legittimando il biondo regista a strapagare Sir Michael Caine per circa tre minuti del minutaggio totale della pellicola.
A parte, c'è un spunto assai interessante di riflessione sul cinema (d'altronde i sogni funzionano come film: c'è un regista, uno scenografo, attori, persino una proto-sospensione dell'incredulità... ) in cui Nolan si dà sostanzialmente del criminale... rispondendo implicitamente al quesito di cui sopra. Chris, sei proprio incorreggibile.
Inception è talmente ambizioso da spingersi pericolosamente in là con la cape del pubblico, con quanta linearità puoi togliergli prima che ti mandi sonoramente a cagare o cominci a non capirci seriamente un ciufolo. Ambizione questa un po' scialona, eh... ma in tempi di pappa pronta (qualcuno ha detto Avatar?); ambizioso poi perché è un giocattolone da qualche milione di dollari, con dietro regole (di questo riparliamo, però), limiti e campo/i da gioco, è un'“idea radicale” in cui finalmente un regista può prendersi il respiro di costruire una storia. Però fallata.

Gigi!

Però... che cosa vuol dire però... Ebbene, Nolan sarà anche un brillantissimo e ammirevole (e anche attraente, dai)  entrepreneur del cinema de' tempi nostri, ma ci propina delle sonore padellate di cui il caro Cristoforo si sbatte con i suoi occhi cobalto.
Come evidenziato da più parti (Google vi è amico), il film ha dei buchi di sceneggiatura che manco il mio impianto del riscaldamento prima che mi dissanguassi per ristrutturare casa: Nolan, durante tutta la seconda metà del film, va avanti barando, infrangendo gli stessi principi che ci ha tanto faticosamente inculcato nell'ora precedente – perché evidentemente senza il dramma non sarebbe esistito. E già qui avete una mezza idea di quale stupendo vicolo cieco si sia costurito il Siur Regista. Poi, ci sono coincidenze e sviste troppo, troppo, troppo improbabili da essere giustificate da qualsiasi finzione filmica, e ricadono nel ritardo mentale di personaggi che, salvo ovviamente Cobb, consorte e un altro paio di tizi, se esistono hanno vita lunga quanto le betularie.

La sostanza è: lasciatevi scombussolare da questa pellicola, ma attenzione, guardatevi co-stan-te-men-te dietro le spalle.

Ma che... davero davero?

Prima ti sposo poi ti rovino, ai meno noto come Intolerable Cruelty, è un allegro esempio di fiaba stronza.
C'era una volta un avvocato divorzista, cinico e di successo. Un giorno, l'avvocato incontra una stronzaccia manipolatrice e se ne innamora perdutamente. In un tweet, questo è il film. Ciao, alla prossima!

"Ciao, sono Giorgio Clunei!"
No, ok... avete ragione, non ho detto niente.
Ptsptr (un acronimo che definirei wertmulleriano) è un film piuttosto anomalo per i Coen - pensate, è il primo che non hanno scritto loro (urla di stupore, gente che si butta dai grattacieli).
I Coen, lo direbbe il nome, sono di origine ebraica, e gli ebrei hanno un senso dell'(auto) umorismo che dagliene - cioè, uno vero, cioè che loro di "autorialità" e analisi filmica manco vogliono sentir parlare... non quello di Antonella Clerici. Qui quest'autoironia la smorzano un attimo, giocano con il genere sentimentale, un po' parodiandolo, un po' seguendone i dettami, un po' fregandosene delle precedenti. Il risultato è una  raffinata commedia acida fino alla corrosione, "un elegante sberleffo al declino etico del Mondo Occidentale" - sì certo bravo, ma fino a un certo punto...
Dove voglia andare a parare il film lo si intuisce da fotogramma 2, e i Coen se ne rendono conto, tanto che si premuniscono buttandola in farsa - e in alcune sequenzucole il puzzo di farsesco si fa pesante (qualcuno ha detto "assistente di Giorgio Clunei"? oppure "nell'ultima mezzora il Clunei si atteggia un po' troppo a  slapstick comedy"?). Però, se nelle mani di altri tutto questo saprebbe di asparago, i capaci fratelli del Minnesota li rendono 96 minuti di cinema da farsi i grattini da soli.
Per una volta insomma, i Coen ci somministrano il loro sarcasmo sottopelle, ma quello che in realtà vogliono fare è fare a loro modo un film sentimentale di quarant'anni fa e divertirsi. Altrettanto dovrebbe fare il pubblico, ma invece io son qui a scriverne e a spaccarmici discretamente i lobi frontali su...
Insomma, in caso di serata stanca e voglia di film brillantino ma non cretino, andate a recuperarvelo, che c'è anche Suspicious Minds che è una delle canzoni per cui cambierei sesso, viaggerei nel tempo e sposerei Elvis e ci farei una figlia mascelluta.

"Scusa, ma... ha detto davvero "Potete sdrumare la sposa...?"

Purtroppo, la parentela con Inception stavolta non esiste, neanche una piccola piccola... ma se siete così geniacci da trovarcela, sapete dove scrivere. L'unica cosa che mi verrebbe in mente è che se Cobb avesse firmato una qualche forma di contratto prematrimoniale con la moglie impazzita, probabilmente ci saremmo risparmiati un sacco di paturnie durante il film. E probabilmente Christopher Nolan ora non giocherebbe a golf su un prato di diamanti a nostre spese.


Morale:
Prevenire è meglio che innestare.

Next Week:
 Cemetery Junction vs. The Wrestler
ovvero: Ascesa e Declino dell'Uomo Occidentale nella Tempesta di Speranze Che è la Vita.

Da Zero a Dieci vs. Antichrist!

Uno non va sempre al cinema per divertirsi beceramente.
Beh certo, a meno che tu non ci vada una volta all'anno, e all'incirca il 26 dicembre. D'altronde, Natale lo si passa coi Parenti - eh, che stoccata?
Dicevo, i film si guardano anche per analizzarsi un po', per mettersi all'angolo e tirarsi dei cazzotti. Al di là delle varie considerazioni psicologico-psicanalitiche che questa pratica comporta, molti film marciano sulla questione con fare piuttosto compiaciuto, il manganello che colpisce ritmicamente il palmo e la voce caverosa, dicendo: quanto ti vuoi mettere in discussione oggi?
Quest'oggi ci occupiamo di due film che - guarda caso - hanno questa tendenza sadica qui. Ebbene, destino volle che guardassi Da Zero a Dieci e Anti-Christ praticamente di seguito... e che, come un lampo a mezzogiorno, fossi colpito da quanto questi due film avessero in comune. A parte i nudi e il fatto che... cioè, alla fine c'è di meglio. Comunque, in entrambi i film c'è tanta crisi esistenziale: nel primo, Da Zero a Dieci, questa va a disperdersi nelle gioie a denti stretti, nell'altro, Antichrist, finisce a schifìo.


Andiamo con ordine.
"Adesso ci prendiamo una bbbella pausa di diegi minuti!"
Da Zero a Dieci è la seconda pellicola diretta da Sir Luciano Ligabue, probabilmente il secondo cantautore italiano più sopravvalutato degli ultimi vent'anni – il primo, ovviamente, è sciur Vasco Rossi. Breve cronistoria: a un certo punto alla fine degli anni '90, quando Ligabue aveva ancora molto da raccontare,  esce la raccolta di racconti Fuori e dentro il borgo. Poco dopo, gli capita fra capo e collo la possibilità di produrre un film da alcune delle novelle ivi contenute: nel 1998 esce Radiofreccia, un concentrato, nel bene e nel male, di quell'immaginario da comune denuclearizzato che ha fatto la fortuna del rocker di Coreggio. Nonostante gli attori fossero dei legni veramente prepotenti (premio Foppa Pedretti a Lord Tù-Is-Mel-Che-Uan-Accorsi), l'esperimento funzionò – anche perché gli venne saggiamente affiancato un regista di professione come Antonello Grimaldi – e nel 2002 Lucianone decise di riprovarci  con Da Zero a Dieci, accompagnato dall'album Fuori come va?, che, manco a farlo apposta, fa piangere le cuspidi. 

I Bitch Boys.

In due parole, questa seconda, tragica pellicola ci racconta l'avventura di quattro coreggiosi... o correggesi... o coreggioni... (!)... quattro abitanti di Coreggio quasi quarantenni che si recano a Rimini per concludere una vacanza cominciata esattamente vent'anni prima, e interrotta improvvisamente per causa-che-se-ve-la-dico-vi-spoilero. Nella Las Vegas della Piadina ritroveranno le simpatiche ninfomani che avevano conosciuto all'epoca: l'obiettivo è proprio fare tutto ciò che era stato impossibile fare allora. (e non sono solo cose sozze)... però stavolta con lo spirito dei quarantenni che fan finta di avere quindic'anni e che si ammazzano di paturnie mentali anche se si fingono allegroni (e ci manca che si travestano da emo).

Diciamo subito che, se è vero che il film stavolta l'ha diretto tutto lui, Luciano la mdp un po' la sa far girare, e, inutili cartelli introduttivi a parte, anche lo script da lui vergato esiste e parla molto 'cinema italiano dei tempi nostri'. Ah, c'è anche il protagonista Giove (fratello del protagonista dell'altro film – perché? non c'entra un tofu! Parliamone, Lucià...), impersonato da uno che mio fratello mi dice essere uno degli attori più stronzi che gli sia capitato di sfiorare all'Accademia Paolo Grassi (n.b.: mio fratello era nel corso per operatori dello spettacolo, e, sottolineiamo E, mio fratello è estremamente fallibile), oltre che uno dei più clamorosi buchi nell'acqua nell'universo attoriale italiano, quel Stefano Pesce che non è arrivato neanche alla sigla della prima puntata di R.I.S. (Riciclo Istrioni Supplicanti).

"Libidine!" - ovvero Faccia da Pesce
Insomma, la pellicola esiste e si passa un'ora e mezza buona con la consapevolezza di star guardando qualcosa, nonostante la farcitura di edulcorazioni della provincia sborona, omosessualismi paraculi, adulteri gratuiti, ed eroismi maledettamente romantici. Oh, e quel qualcosa che si starebbe guardando non è riferito alla gradita sovrabbondanza di capezzoli al vento, sia chiaro...
Ora, quello che non viene fuori subito, ma che viene fuori a uno come me che Ligabue ce l'ha molto sul groppone, è che Da Zero a Dieci è la testimonianza di una forma di paranoia da curare. Questo film, come il precedente e come buona parte della produzione musicale del Big Lucia, è l'ennesimo spurgo di un tizio che ha assurto a religione il fare sempre e solo la cosa 'sbagliata' perché pare l'unico modo per sentirsi vivi. Sostanzialmente, abbiamo di fronte la lagna di un bambinone che finge di fottersene del giudizio altrui quando agisce solo per reazione... neanche per Romanticismo o goliardia – che lì gli stringerei la mano -, ma solo per fare un dispetto ai 'benpensanti', ai 'moralisti', agli 'integrati' - ergo, non liberamente, ma solo per rompere le balle e, in definitiva, fare agli altri la morale.
Qui la cosa viene elevata a potenza dal fattore crisi di mezza età: i fortys, si sa, sono l'età dei bilanci, l'età in cui si “valuta” la vita, la strada fatta fin a quel momento, visto che comincia a farsi sentire l'alito della fine. E farsi un ultimo bagno di gioventù è pure giusto, per carità; l'occasione poi è perfetta per una riflessione,.. magari, che ne so, sul senso stesso di questo bagno di gioventù...
Ma  niente. Qui si insegue altro: qui si insegue l'autoassoluzione non solo per un peccato originale che i personaggi dovrebbero espiare (non spoilero) ma per ogni loro minima eccentricità, scintilla di pazzia o originalità o sentimentalismo o chissà cos'altro. Giustificare se stessi, continuamente, perchè il mondo fuori è cattivo e ti manda solo a cagare, uffi. Perchè non piangersi un po' addosso, eh? E allora giù con quei bei frasoni sulla vita, l'universo e tutto quanto cui ci ha abituato Ligabue, e che hanno più a che fare con il piagnisteo da sogni infranti che a una seria riflessione sulla condizione umana.
Sbando un attimo dal film e mi butto sul discorso artistico in genere, perchè il problema del Liga è questo.  La metto in metafora, spero arrivi: una volta c'era solo la strada, per chi scrive forse trattata in modo un po' ingenuo, però era la strada, una cosa meravigliosa sulla quale perdersi, sulla quale comprendersi... e su cui si sono persi davvero in parecchi... Poi qualcosa è scattato e Ligabue ha messo la freccia, ha parcheggiato ed è diventato un benzinaio. Però finge ancora di esserci, sulla strada, crede di averla capita, crede di saperla raccontare... ma la strada  (che qualcuno glielo insegni) è un'altra cosa, va avanti, si capisce percorrendola, non ci si giustifica sul perchè la percorri, sul dove sei...


Veniamo a Antichrist di Lars Von Trier, probabilmente l'esempio di psicoterapia cinematografica meglio riuscito di, che ne so, sempre.
Innanzi tutto premettiamo che, checché ne dicano Wikipedia o vari giornali, questo NON È un film horror: sicuramente non nel senso classico, e men che meno in senso esteso. È un film che fa sicuramente molta impressione, che angoscia l'animo, ma non ha la finalità primaria di farvi defecare nel palmo, come dicono a Bolzano.
Detto questo, ribadiamo: ci sono delle scene forti, fortissime, ma proprio pugno nella coscia con livido. E si intitola Antichrist. Ma non è un film dell'orrore, cribbio!
Amarsi a un milione di fotogrammi al secondo.
All'inizio dei tempi, Lars Von Trier, cinematografaro danese recentemente autoproclamatosi "Miglior Regista del Mondo" e col vizietto per il film controverso, aveva in mente per questo film tutt'altra storia. Doveva essere la sconquassante storia della rivelazione che la Terra era stata creata nientepopòdimenoche da... Satana! Soltanto che il suo direttore della fotografia spiattellò involontariamente l'idea ai quattro venti, Lars si incazzette e chiudette bottega. Poi sembra che sono solo io ad incazzarmi quando mi spoilerano i film...
Un paio d'annetti dopo, Lars cade in una delle sue depressioni periodiche, ma stavolta è una depressione talmente profonda che gli impedisce di lavorare. Comincia a riplasmare il progetto Antichrist, a riscrivelo da capo proprio per vedere se riesce a combinarci qualcosa di buono: ancora succube della depreçao, Von Trier finisce la sceneggiatura e gira comunque il film... col risultato di renderlo straordinariamente ossessivo, perversamente affascinante, ma, soprattutto, intimo.
La storia è questa: proprio durante una poderosa copulatio, una coppia benestante perde il proprio figliolo treenne, che, affascinato dalla neve, si è lasciato cadere dal terzo piano. La madre è sconvoltissima ed esce moderatamente di senno: contro ogni codice deontologico, il marito psicoterapeuta decide di prendersene cura personalmente. Per eradicare d'impatto il trauma, la coppia si reca in un casetta in mezzo alle montagne, un posto chiamato Eden (toh!), dove lei si era recata un anno prima col figlioletto per scrivere una tesi sul genocidio. Un posto che lei temeva assaie. Infatti, lei qui finisce per perdere anche le poche rotelle rimaste... e il resto, potete immaginarlo, è morte, sangue e introspezione.

Una casetta molto carina...
Cosa c'è di meglio di un film che sembra completamente misogino e pretenzioso? Semplice, un film che se ne frega di quello che ne pensate. È palese che Antichrist sia un film a uso e consumo del suo autore, è un gigantesco farmaco di auto-medicazione cinematografico... un farmaco che lascia il dubbio che Lars non abbia ancora chiuso la partita con i suoi problemi psichici. Ma di fondo c'è un conflitto, una lotta contro le forze che ci dominano, l'eterna partita di un uomo contro un Male irrazionale che qui ha volto di Donna (in senso lato, non solo la protagonista).
A prima vista, Antichrist sembra "Interiors di Woody Allen incontra l'Esorcista", senza l'ascendente Bergmaniano e con un po' di Pop-Porno. In realtà, è il concetto di cui sopra (Satana che crea la Terra) imploso in una  'banale' storia di dolore, un dolore che porta una donna ad attivare, per reazione, un contatto istintuale e primigeno con una Natura crudele che se ne strafotte delle razionalizzazioni e delle dicotomie della nostra beneamata umanità. Sembra pure un po' pretenzioso, ma si finisce per essere calamitati da questo ribaltamento etico più che dalla tagliente tensione psicologico-sessuale o dalla curatissima messa in scena.

Oooooh, the humanity!
E alla fine, chi vince questa battaglia campale? Il pisellone della controfigura di Willem Dafoe (un membro torturato in modi che toglierebbero la ragione ogni essere di sesso maschile) o il clitoride della controfigura di quella sciamannata di Charlotte Gainsbourg? Cos'è reale in questo Eden brutto brutto? Non lo so, non si spiega, tutto è irrisolto, sospeso, ambiguo. Come sempre, l'arte migliore mette a nudo contraddizioni che non si cura minimamente di risolvere. E a noi comunisti dei salotti buoni va molto bene così.
Capolavoro? Per chi scrive no, per chi legge e maldigerisce i mattoni inquietosi men che meno, per chi legge e vuole esaltare sottigliezze microscopiche probabilmente sì. Però un viaggio importante nel lato oscuro e carnale dell'Universo, un viaggio che, prima o poi, s'ha da fa.

Morale: 
Chi fa da sé, muore (o si fa molto molto male).

Next Week: 
Inception vs. Prima ti sposo poi ti rovino

This Is It vs. Diary of the Dead

Primo giro, prima accoppiata che funziona sempre: morte e distruzione.
Questa settimana affianchiamo in modo inappropriato il celeberrimerrimo This is it e Death of the Dead. Faremo la conta dei morti alla fine.

Partiamo con This Is It.
La storia la sapete tutti, e sapete tutti come finisce. Ahahahah... dai, fa sempre ridere.
In due parole, il film non è altro che un extra del DVD del tour omonimo, comprato in una realtà alternativa in cui Michael Jackson ha scelto di affidarsi a un medico competente – sopravvivendo. Ci piacerebbe, eh?
Purtroppo la realtà è ben altra: visto che le cose sono andate come sono andate, per recuperare qualcosa dagli investimenti ultramilionari dietro a quello che sembrerebbe effettivamente il concerto più esagerato mai concepito (e forse, proprio per questo, sabotato dalle Potenze Celesti), il divino Kenny Ortega – sì, proprio lui, quello della trilogia di High School Musical, nonchè produttore e regista dello spettacolo insieme al “King of Pop” (di qui in poi, MJ) – prende “armi e ritagli” (letteralmente) e tira su dal materiale già pronto una sommaria ricostruzione del dietro-le-quinte, infilandoci alcune delle sequenze preparate ad hoc per lo show e sfamando (una tantum) quella terribile fame chimica che ti viene quando un artista muore lasciando incompiuto qualcosa (e chi come me ha aspettato sette anni per l’ultimo disco di Johnny Cash ha più resistenza di Pannella).
Perchè a ogni assolo MJ minaccia di scoparsi il/la chitarrista di turno?



Prima della morte di MJ, non mi ero mai reso conto di quanta gente lo adorasse. Personalmente, credo di aver conosciuto UN solo devoto in vita mia - ma ora sembra che siano tantissimi, anche se dal conteggio vanno espunti quelli saliti sul carro (funebre) all’ultimo momento. Io personalmente ero rimasto ai Jackson 5. Eppure c’è stata gente, anche qui in Italia (e non l’avrei mai detto) che s’è spolpata il pancreas, e parecchio: il mondo occidentale ha scoperto all’improvviso di aver perso uno dei suoi plasmatori – o, almeno, io scoprivo che il mondo riconosceva MJ come uno dei suoi plasmatori. E… beh, non sono mai stato un enorme fan di MJ, quindi è comprensibile… ma la cosa mi ha stupefatto assaie. Non dubito del talento canoro-produttivo-danzerecco del Negretto di Diamante, ma che ci fossero al mondo così tante persone disposte a donargli un organo sulla base di canzoni certo ben fatte e straordinariamente orecchiabili… ma non così tanto da renderle oggetto di culto. Mica si parla di, che ne so, Ivan Cattaneo.
Quel mio stupore è tornato a galla mentre guardavo le sequenze d’apertura del film: prima, mentre ballerini e ballerine in procinto di essere provinati giuravano amore e devozione al dio Jackson davanti alla telecamere; poi, mentre MJ in tenuta Gheddafi annunciava al mondo i suoi concerti d'addio, circondato da sbarbati in lacrime. Voglio dire, ormai Amici e X-Factor ci hanno abituato ai melodrammi di ogni cantante o ballerino che elemosina sogni realizzati, ma qui i provinanti sembravano quasi dei miracolati da Padre Pio a cui è finalmente concessa l’ultima chance di toccarne le stimmate. Jeez, c’è sempre Madonna – certo, se sei disposto a spendere diecimila euro in lampade e altri diecimila in passaporti dell’Uganda e a farti adottare da una cinquantenne con gli ormoni irrimediabilmente sballati.
Da qui, parte lo spettacolo, con registrazioni delle prove a vari stadi di realizzazione, previsualizzazioni al computer, testimonianze degli addetti ai lavori, ma soprattutto le sequenze (teoricamente in 3D) girate apposta per lo show, tra cui spicca uno spassoso vilipendio a Casablanca, in cui MJ viene sparato dal fu Humphrey Bogart, sostanzialmente mettendogli prescia nel raggiungerlo nell'Aldilà del Merchandising. Ovviamente, ogni commento su Thriller e sui suoi molteplici collegamenti con la vicenda jacksoniana e il prossimo film recensito vi verranno risparmiati, ma voi ridete come se avessi fatto una battutona.
Prima della fine del film, ci saremo affezionati ai simpatici gigioni che popolano questa pellicola: in primis Kenny Ortega, che prima era per me una specie di sinonimo vivente di Satana, ma poi mi si è rivelato come professionista competente e (fin troppo) premuroso; ma soprattutto il vocal coach e arrangiatore, di cui ora mi sfugge il nome, probabilmente l'unico uomo sulla Terra a cui fosse concesso di prendere per il culo Jackson senza che gli venissero rapiti i figli (per farne poi quello che intuite). Protagonista del film non è però MJ ma il suo L-O-V-E, ripetuto allo sfinimento, quell'ammore bello e quel desiderio di salvezza del mondo che ti fanno ripetere solo luoghi comuni sul mondo, ma ok... almeno il cuore è al giusto posto, come da proverbio.
La cosa davvero odiosa è che ci fanno soltanto annusare il colossale finale dello show, nel quale Michele Figliodigiacomo sarebbe dovuto decollare verticalmente, una roba così straordinaria che Kenny Ortega e MJ ne parlano sgranando gli apparati ottici come se avessero appena inventato una cura all’Aids. E poi manco una sbirciatina. Kenny... sei un grandissimo stronzo. E mi sa che sei pure un po’ buliccio.
MJ gioca agli Affari Suoi.
La cosa che fa più sorridere del finale è il pensiero che MJ, imperniata la morale dello show sull’apocalisse ecologics imminente (cioè, nell’ordine dei minuti, standolo a sentire), avesse imbastito questa megatterica macchina spettacolare senza (a quanto si sappia, almeno) la minima compensazione ambientale - che ne so quattro miliardi di alberi piantati nel Sahara, sboronate simili. Pensate alle immani quantità di energia usate per le prove, i trasporti delle attrezzature, i materiali di scenografie e costumi, senza contare l’imminente trasferimento di tutto il cucuzzaro a Londra, dove era prevista una cinquantina di repliche. Una roba di un impatto ambientale probabilmente pari all’esplosione di una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Ups, è successo…
L’ultima cosa che emerge da questo film è che MJ, nel bene e nel male, mancava di ogni senso del limite. Ogni singola sillaba di ogni singola strofa di ogni singola canzone è associata a un passo o un movimento. Senza. Alcun. Senso. Penso che avesse una coreografia anche per tirarsi giù la zip dei pantaloni in bagno. Urge una ridefinizione di “superfluo”. E forse anche di “coreografia”.
Ma alla fine l’importante è questo, che MJ balli e canti come se non ci fosse un domani. E, ahilui, il domani non c’è stato. 
Nonostante in fin dei conti sia stato molto più che dignitoso – previa digestione delle premesse* – , il film riesce a inabissarsi clamorosamente dopo i titoli di coda, con l’immagine più stomachevolmente ruffiana di ogni tempo. Questa:
Intanto, altrove, qualcuno muore di diabete.
Esistono cartoline di Riccione più sobrie.

* Le premesse:
1. Come detto, questo film nasce con il solo intento di mostrare come sarebbe stato This Is It.
2. Data la premessa 1 e considerato il fatto che di documentario si tratterebbe, questo film può legittimamente fare a meno di una storia.
3. Date le premesse 1 e 2, la vicenda umana di MJ è lasciata quasi del tutto implicita.
4. Date le premesse 1, 2 e 3, alcune sequenze di questo film non avrebbero senso se non come specchietto delle allodole. Ma possiamo sovravvolare.

Proseguiamo con un altro bel film che ci parla di morte e di morte della morte. Sìoreesiori, Diary of the Dead… (trombette).
New Ways To Die (Again)

Allora, innanzi tutto un breve ripasso su George Romero, regista del suddetto. Romero è uno alto due metri, con degli occhiali spessissimi che gli invidio un casino e la faccia da nonno buono. Eppure ha inventato il film di zombie per come lo conosciamo oggi. Era il 1968, e La Notte dei Morti Viventi (quello originale) dimostrava che era possibile inventare dei generi nonostante le tasche bucate. Romero è uno che ai morti viventi tiene parecchio: voglio dire, se su quindici film diretti, cinque sono dedicati a gente che muore, resuscita e ammazza altra gente camminando con quell'andatura un po così – un po' spastica, diciamo -, beh, vuol dire che ci è palesemente affezionato. D'altronde, è un argomento di attualità scottante, come dimostra questo personaggio qui.
"Buonasera dottore..."
Con Diary of the Dead – in italiano (awfully) Le cronache dei morti viventi -, Romero re-inventa la propria formula, shakerandola con l'intuizione che ha fatto il successo di Blair Witch Project o Rec, ovvero la telecamerina a mano che uno si porta appresso e fa tutte le riprese che minghia-mi-caco-in-mano-ma-non-smetto-neanche-se-mi-sdrumano
Infatti, Diary segue le vicissitudini di otto studenti di cinema che, venuti a sapere dello scoppio dell'epidemia zombesca, abbandonano in tutta fretta il progettino filmico che stavano realizzando – manco a farlo apposta, un film sugli zombie – per darsela a gambe e tornare a casa. Ebbene, il regista del progettino decide che la cosa è assolutamente da documentare in tutto e per tutto, perché in fin dei conti “è storia”, “potrebbe salvare delle vite umane” e cazzate varie (ed eccolo, armato di portatile, il giovane cineasta che continua ossessivamente a caricare il girato su Internet appena gli capita a tiro una presa elettrica). La cosa è digerita a fatica dai compagni di viaggio, che però alla fine un po' si fanno cazzi loro.
"....eeeeTAGLIA!"

Ed è proprio qui che il Giorgione, che è uno che ne sa anche troppe, usa l'elemento telecamerina per portare ancora più il là il discorso sociologico sugli zombie: la cultura e la società occidentali sono talmente pervase dalle immagini che ne siamo diventati sudditi. La televisione filtra la nostra percezione del vero, ma soprattutto amplifica il nostro istinto primordiale e inspiegabile di testimoniare a ogni possibile nefandezza  - a partire dall'incidente in autostrada fino a Cogne, -, dall'altra a volerci rendere immortali attraverso il potere dell'immagine stessa (sì, proprio il Complesso dela Mummia di Bazin. E tutti giù a ridere). Il "produttore" di immagini, chi tiene in mano la telecamera, diventa quindi esattamente come uno zombie, un perpetuatore di un circolo vizioso. E nel film non si sta neanche a sottolizzare più di tanto sulla questione, e qui vi rimando ai dialoghi (non eccellenti) che pungono la faccenda nel vivo e forniscono qualche spunto di riflessione.
Certo, a noi intellettuali comunisti il fatto che certi temi che facciamo noi nei nostri salotti comunisti vengano spiattellati al popolino così già mezze digerite ci fa girare i cabasisi... no, dai scherzo, per essere un film d'intratteniment tutto questo sottotesto è davvero grasso che stracola. Applausi al Romero, che ci infila sempre cosette mica da ridere nei suoi film, che magari il tredicenne brufoloso che li vede per adrenalinizzarsi con due schizzetti di sangue esce con mezzo neurone che gira. Poi quando vedi le cervella spiattellate alla julienne, è sempre il momento di urlare, come fa mia mamma quando le cade qualcosa, “Mannaggia alla morte puttana!”.
Ok, ora possiamo chiudere.

Morale: Chi muore si rivede.

Next week
Da Zero a Dieci vs. Anti-Christ
(ovvero C'è grossa Crisi)

Editorial

"blablabla".
Questa era la prima versione dell'Editoriale, e sostanzialmente condensa tutto quello che questo ennesimo blog di recensioni si ripromette di essere: parole a caso per razionalizzare sul nulla. Oltre che un'elegante scusa per dare del deficiente alla gente.
Devo dirlo subito. Questo  blog novo novello ha dei modelli. Innanzi tutto, i 400 Calci e la defunta Morelli Movie Guide, siti di recensioni cinematografiche tutte matte ma insperabilmente succose che penso abbiano dato parecchie lezioni di cinema (e arte in genere) a parecchi lettori sbarbatelli. Altre fonti d'ispirazione importanti sono Ain't It Cool News, recensioni un po' più istituzionali ma sempre un po' con i piedi sul tavolo e la coca-cola in mano, e Orrore a 33 Giri, massacri musicali d'ogni tipo e trashaggine con l'occhio filologico e chirurgico di chi sa leggere i rifiuti per capire tutto della vita di una persona.
Fatto salvo lo sfruttamento della formula di recenziuni dissacranti e gigionesche, rispetto ai modelli il sottoscritto si riserva qualche intuizioncina: "parlare di" (quindi una roba un po' più ampia del recensire) non uno, ma ben DUE - dico, DUE - film/dischi/libri/quelchecapita, con cadenza (auspicabilmente) settimanale. Soprattutto i film sono scelti puramente a caso, ovvero relativamente al mio personalissimo ordine di visione. Che, con una bella contraddizione, è semi-casuale, o meglio come gira l'ormone. Se possibile, sarà analizzata la parentela dietro a questa giustapposizione, altrimenti ciccia. Ovviamente, nel caso voleste consigliare quelque chose, gli spazi appositi ci sono (commenti, mail, sa-'r-cazzo).
Altra bella caratteristica che ci piace a noi di questo blog è il fatto che a noi in quello che leggiamo/vediamo/ascoltiamo ci gushta sempre trovare la morale. Perchè la morale c'è sempre, no? E allora noi la spieghiamo per filo e per segno, così sono tutti contenti. Non come gli altri.
Per finire annoiandovi, l'obiettivo a cui miro è anche contribuire a rinfrescare l'ambiente "critica italiana". Troppa poca autoironia, troppa retorica, troppo poco rispetto nei confronti del lettore. Qui il lettore o non sarà maltrattato, o sarà maltrattato davvero, non subdolamente come, fa, un nome su tutti, Natalia Aspesi. O Curzio Maltese, che nessuno ha ancora capito perchè scriva recensioni cinematografiche. E cito due di Repubblica non perchè siano dei pericolosi marxisti (cit.) ma perchè è il primo quotidiano che ho a tiro.
Scherzi a parte, il problema è sfaccettato e qui lo voglio affrontare molto superficialmente (tié). Da un paio d'anni lavoro come collaboratore per un sito di musica italiana e già da prima ho scritto per Glamazonia, bellissimo sito dedicato ai fumetti, ergo mi sono fatto le ossa sul campo, con l'aiuto del background teorico che degli studi in Scienze della Comunicazione possono darti.
Nella mia esperienza, l'importanza della recensione ha certo la finalità pratica di consigliarti o meno di vedere un film, leggere un libro o un fumetto, ascoltare un disco, andare a una mostra, comprarti una macchina, per tutta una serie di ragioni che, per quanto giustificate e per quanto il recensore possa illudersi, raramente, molto raramente sono oggettive. Ci sono tante di quelle variabili nell'interpretazione e nell'opinione che ci facciamo delle cose che cercare obiettività in una recensione è come cercare di far dire qualcosa di intelligibile a Umberto Bossi. Si punta al massimo all'imparzialità (ergo, essere equilibrati e saper argomentare perchè) e si tenta formalmente di creare quantomeno un contesto equilibrato in cui si possa istituire una persuasione e un'interazione con l'eventuale lettore. Perchè a quello si punta, persuadere.
Ma soprattutto, una recensione ha il compito di fornire un input critico nel lettore o in altri critici. Mi spiego: la buona recensione non solo dice se il prodotto è buono o meno per determinate ragioni più o meno condivisibili, ma cala il prodotto stesso in un contesto, ricostruisce il reticolo tra l'opera, l'autore, il pubblico, la situazione storica e via dicendo. Solo fornendo queste premesse, un lettore ha l'input per elaborare in proprio il prodotto, per farlo recepire "criticamente". Il buon critico, insomma, suggerisce idee e responsabilizza il consumatore, non gli sbatte in bocca paltate di pappa pronta. E non c'è niente di più insultante delle opinioni "per sentito dire" - non quelle riportate, ma quelle che si fanno "proprie" a pappagallo.
Quello che spesso manca alla critica italiana è la coscienza di questa seconda funzione, e l'intelligenza necessaria per metterla in pratica. Noi siamo qui per dare lustro, sorriso e leggerezza intelligente a una cosa che ha un'importanza  totalmente ignorata, ma che contribuisce a un dibattito e a una circolazione di idee fondamentale per la crescita culturale di un popolo. Fra vent'anni nessuno cagherà più queste righe, ma se nel momento in cui nascono hanno avuto una funzione, è già qualcosa di cui esser fieri. Per il resto, come dice la Settimana Enigmistica e conferma Paolo Conte, la critica sta agli artisti come i cani stanno ai pali della luce - e, in parte, è giusto così.
Beh, ci sarebbe una terza funzione, ma è corollario della prima e qui non c'entra niente, per cui chiudo.
Sperando che questo blog mi faccia anche guadagnare un posto di lavoro oltre che la vostra stima, oltre che magari un pizzico in più di sale in zucca (più per me che per voi, eheheh) quando vi approcciate al selezionato prodotto culturale, vi saluto e vi auguro tante belle cose.
Paolo D'Alessandro