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Da Zero a Dieci vs. Antichrist!

Uno non va sempre al cinema per divertirsi beceramente.
Beh certo, a meno che tu non ci vada una volta all'anno, e all'incirca il 26 dicembre. D'altronde, Natale lo si passa coi Parenti - eh, che stoccata?
Dicevo, i film si guardano anche per analizzarsi un po', per mettersi all'angolo e tirarsi dei cazzotti. Al di là delle varie considerazioni psicologico-psicanalitiche che questa pratica comporta, molti film marciano sulla questione con fare piuttosto compiaciuto, il manganello che colpisce ritmicamente il palmo e la voce caverosa, dicendo: quanto ti vuoi mettere in discussione oggi?
Quest'oggi ci occupiamo di due film che - guarda caso - hanno questa tendenza sadica qui. Ebbene, destino volle che guardassi Da Zero a Dieci e Anti-Christ praticamente di seguito... e che, come un lampo a mezzogiorno, fossi colpito da quanto questi due film avessero in comune. A parte i nudi e il fatto che... cioè, alla fine c'è di meglio. Comunque, in entrambi i film c'è tanta crisi esistenziale: nel primo, Da Zero a Dieci, questa va a disperdersi nelle gioie a denti stretti, nell'altro, Antichrist, finisce a schifìo.


Andiamo con ordine.
"Adesso ci prendiamo una bbbella pausa di diegi minuti!"
Da Zero a Dieci è la seconda pellicola diretta da Sir Luciano Ligabue, probabilmente il secondo cantautore italiano più sopravvalutato degli ultimi vent'anni – il primo, ovviamente, è sciur Vasco Rossi. Breve cronistoria: a un certo punto alla fine degli anni '90, quando Ligabue aveva ancora molto da raccontare,  esce la raccolta di racconti Fuori e dentro il borgo. Poco dopo, gli capita fra capo e collo la possibilità di produrre un film da alcune delle novelle ivi contenute: nel 1998 esce Radiofreccia, un concentrato, nel bene e nel male, di quell'immaginario da comune denuclearizzato che ha fatto la fortuna del rocker di Coreggio. Nonostante gli attori fossero dei legni veramente prepotenti (premio Foppa Pedretti a Lord Tù-Is-Mel-Che-Uan-Accorsi), l'esperimento funzionò – anche perché gli venne saggiamente affiancato un regista di professione come Antonello Grimaldi – e nel 2002 Lucianone decise di riprovarci  con Da Zero a Dieci, accompagnato dall'album Fuori come va?, che, manco a farlo apposta, fa piangere le cuspidi. 

I Bitch Boys.

In due parole, questa seconda, tragica pellicola ci racconta l'avventura di quattro coreggiosi... o correggesi... o coreggioni... (!)... quattro abitanti di Coreggio quasi quarantenni che si recano a Rimini per concludere una vacanza cominciata esattamente vent'anni prima, e interrotta improvvisamente per causa-che-se-ve-la-dico-vi-spoilero. Nella Las Vegas della Piadina ritroveranno le simpatiche ninfomani che avevano conosciuto all'epoca: l'obiettivo è proprio fare tutto ciò che era stato impossibile fare allora. (e non sono solo cose sozze)... però stavolta con lo spirito dei quarantenni che fan finta di avere quindic'anni e che si ammazzano di paturnie mentali anche se si fingono allegroni (e ci manca che si travestano da emo).

Diciamo subito che, se è vero che il film stavolta l'ha diretto tutto lui, Luciano la mdp un po' la sa far girare, e, inutili cartelli introduttivi a parte, anche lo script da lui vergato esiste e parla molto 'cinema italiano dei tempi nostri'. Ah, c'è anche il protagonista Giove (fratello del protagonista dell'altro film – perché? non c'entra un tofu! Parliamone, Lucià...), impersonato da uno che mio fratello mi dice essere uno degli attori più stronzi che gli sia capitato di sfiorare all'Accademia Paolo Grassi (n.b.: mio fratello era nel corso per operatori dello spettacolo, e, sottolineiamo E, mio fratello è estremamente fallibile), oltre che uno dei più clamorosi buchi nell'acqua nell'universo attoriale italiano, quel Stefano Pesce che non è arrivato neanche alla sigla della prima puntata di R.I.S. (Riciclo Istrioni Supplicanti).

"Libidine!" - ovvero Faccia da Pesce
Insomma, la pellicola esiste e si passa un'ora e mezza buona con la consapevolezza di star guardando qualcosa, nonostante la farcitura di edulcorazioni della provincia sborona, omosessualismi paraculi, adulteri gratuiti, ed eroismi maledettamente romantici. Oh, e quel qualcosa che si starebbe guardando non è riferito alla gradita sovrabbondanza di capezzoli al vento, sia chiaro...
Ora, quello che non viene fuori subito, ma che viene fuori a uno come me che Ligabue ce l'ha molto sul groppone, è che Da Zero a Dieci è la testimonianza di una forma di paranoia da curare. Questo film, come il precedente e come buona parte della produzione musicale del Big Lucia, è l'ennesimo spurgo di un tizio che ha assurto a religione il fare sempre e solo la cosa 'sbagliata' perché pare l'unico modo per sentirsi vivi. Sostanzialmente, abbiamo di fronte la lagna di un bambinone che finge di fottersene del giudizio altrui quando agisce solo per reazione... neanche per Romanticismo o goliardia – che lì gli stringerei la mano -, ma solo per fare un dispetto ai 'benpensanti', ai 'moralisti', agli 'integrati' - ergo, non liberamente, ma solo per rompere le balle e, in definitiva, fare agli altri la morale.
Qui la cosa viene elevata a potenza dal fattore crisi di mezza età: i fortys, si sa, sono l'età dei bilanci, l'età in cui si “valuta” la vita, la strada fatta fin a quel momento, visto che comincia a farsi sentire l'alito della fine. E farsi un ultimo bagno di gioventù è pure giusto, per carità; l'occasione poi è perfetta per una riflessione,.. magari, che ne so, sul senso stesso di questo bagno di gioventù...
Ma  niente. Qui si insegue altro: qui si insegue l'autoassoluzione non solo per un peccato originale che i personaggi dovrebbero espiare (non spoilero) ma per ogni loro minima eccentricità, scintilla di pazzia o originalità o sentimentalismo o chissà cos'altro. Giustificare se stessi, continuamente, perchè il mondo fuori è cattivo e ti manda solo a cagare, uffi. Perchè non piangersi un po' addosso, eh? E allora giù con quei bei frasoni sulla vita, l'universo e tutto quanto cui ci ha abituato Ligabue, e che hanno più a che fare con il piagnisteo da sogni infranti che a una seria riflessione sulla condizione umana.
Sbando un attimo dal film e mi butto sul discorso artistico in genere, perchè il problema del Liga è questo.  La metto in metafora, spero arrivi: una volta c'era solo la strada, per chi scrive forse trattata in modo un po' ingenuo, però era la strada, una cosa meravigliosa sulla quale perdersi, sulla quale comprendersi... e su cui si sono persi davvero in parecchi... Poi qualcosa è scattato e Ligabue ha messo la freccia, ha parcheggiato ed è diventato un benzinaio. Però finge ancora di esserci, sulla strada, crede di averla capita, crede di saperla raccontare... ma la strada  (che qualcuno glielo insegni) è un'altra cosa, va avanti, si capisce percorrendola, non ci si giustifica sul perchè la percorri, sul dove sei...


Veniamo a Antichrist di Lars Von Trier, probabilmente l'esempio di psicoterapia cinematografica meglio riuscito di, che ne so, sempre.
Innanzi tutto premettiamo che, checché ne dicano Wikipedia o vari giornali, questo NON È un film horror: sicuramente non nel senso classico, e men che meno in senso esteso. È un film che fa sicuramente molta impressione, che angoscia l'animo, ma non ha la finalità primaria di farvi defecare nel palmo, come dicono a Bolzano.
Detto questo, ribadiamo: ci sono delle scene forti, fortissime, ma proprio pugno nella coscia con livido. E si intitola Antichrist. Ma non è un film dell'orrore, cribbio!
Amarsi a un milione di fotogrammi al secondo.
All'inizio dei tempi, Lars Von Trier, cinematografaro danese recentemente autoproclamatosi "Miglior Regista del Mondo" e col vizietto per il film controverso, aveva in mente per questo film tutt'altra storia. Doveva essere la sconquassante storia della rivelazione che la Terra era stata creata nientepopòdimenoche da... Satana! Soltanto che il suo direttore della fotografia spiattellò involontariamente l'idea ai quattro venti, Lars si incazzette e chiudette bottega. Poi sembra che sono solo io ad incazzarmi quando mi spoilerano i film...
Un paio d'annetti dopo, Lars cade in una delle sue depressioni periodiche, ma stavolta è una depressione talmente profonda che gli impedisce di lavorare. Comincia a riplasmare il progetto Antichrist, a riscrivelo da capo proprio per vedere se riesce a combinarci qualcosa di buono: ancora succube della depreçao, Von Trier finisce la sceneggiatura e gira comunque il film... col risultato di renderlo straordinariamente ossessivo, perversamente affascinante, ma, soprattutto, intimo.
La storia è questa: proprio durante una poderosa copulatio, una coppia benestante perde il proprio figliolo treenne, che, affascinato dalla neve, si è lasciato cadere dal terzo piano. La madre è sconvoltissima ed esce moderatamente di senno: contro ogni codice deontologico, il marito psicoterapeuta decide di prendersene cura personalmente. Per eradicare d'impatto il trauma, la coppia si reca in un casetta in mezzo alle montagne, un posto chiamato Eden (toh!), dove lei si era recata un anno prima col figlioletto per scrivere una tesi sul genocidio. Un posto che lei temeva assaie. Infatti, lei qui finisce per perdere anche le poche rotelle rimaste... e il resto, potete immaginarlo, è morte, sangue e introspezione.

Una casetta molto carina...
Cosa c'è di meglio di un film che sembra completamente misogino e pretenzioso? Semplice, un film che se ne frega di quello che ne pensate. È palese che Antichrist sia un film a uso e consumo del suo autore, è un gigantesco farmaco di auto-medicazione cinematografico... un farmaco che lascia il dubbio che Lars non abbia ancora chiuso la partita con i suoi problemi psichici. Ma di fondo c'è un conflitto, una lotta contro le forze che ci dominano, l'eterna partita di un uomo contro un Male irrazionale che qui ha volto di Donna (in senso lato, non solo la protagonista).
A prima vista, Antichrist sembra "Interiors di Woody Allen incontra l'Esorcista", senza l'ascendente Bergmaniano e con un po' di Pop-Porno. In realtà, è il concetto di cui sopra (Satana che crea la Terra) imploso in una  'banale' storia di dolore, un dolore che porta una donna ad attivare, per reazione, un contatto istintuale e primigeno con una Natura crudele che se ne strafotte delle razionalizzazioni e delle dicotomie della nostra beneamata umanità. Sembra pure un po' pretenzioso, ma si finisce per essere calamitati da questo ribaltamento etico più che dalla tagliente tensione psicologico-sessuale o dalla curatissima messa in scena.

Oooooh, the humanity!
E alla fine, chi vince questa battaglia campale? Il pisellone della controfigura di Willem Dafoe (un membro torturato in modi che toglierebbero la ragione ogni essere di sesso maschile) o il clitoride della controfigura di quella sciamannata di Charlotte Gainsbourg? Cos'è reale in questo Eden brutto brutto? Non lo so, non si spiega, tutto è irrisolto, sospeso, ambiguo. Come sempre, l'arte migliore mette a nudo contraddizioni che non si cura minimamente di risolvere. E a noi comunisti dei salotti buoni va molto bene così.
Capolavoro? Per chi scrive no, per chi legge e maldigerisce i mattoni inquietosi men che meno, per chi legge e vuole esaltare sottigliezze microscopiche probabilmente sì. Però un viaggio importante nel lato oscuro e carnale dell'Universo, un viaggio che, prima o poi, s'ha da fa.

Morale: 
Chi fa da sé, muore (o si fa molto molto male).

Next Week: 
Inception vs. Prima ti sposo poi ti rovino

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