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Speciale Fimmine: Il primo cavaliere vs. Scott Pilgrim vs. The World

In questo blog, c'è un forte affetto per il mondo femminile, che, ok, ci fa penare sempre come dei cristi, ma alla fine ci si vuole sempre bene. Tanto da farsi una pedalatona di chilometri nella nebbia pavese e nelle risaie per andare alla manifestazione "Se non ora, quando?". Molto bello, soprattutto se a Pavia la polizia permette solo di fare un corteo circoscritto a PiazzaVittoria. Bravi.
Ebbene, DF torna temporaneamente al formato classico per parlare di due film di completa sottomissione del masculo al genere femminile: Il Primo Cavaliere e Scott Pilgrim vs. The World. Oddio, sottomissione è una parola un po' fortina. Diciamo che in un film da una donna pendono le sorti di un regno, dall'altro la vita di un povero sfigatello.
Iniziamo col primo. Cavaliere.
La defenestrazione di Ginevra.


La storia si riassume così: Re Artù viene cornificato da Ginevra, che nicchia nicchia e poi si stralimona il Lancillotto (di Lancillotto).

Hard Lemon (Came-a-lot)
Andiamo direttamente al sodo. Il Primo Cavaliere è un film con un solo, maestoso pregio. È montato da Dio, ha un ritmo tale che quasi sembra un film bello. Ehi, ma guarda chi c'è nei titoli: Walter Murch, tipo la semidivinità del montaggio hollywoodiano contemporaneo. Walter Murch sarebbe in grado di rendere quasi sensato anche, che ne so, Svitati on the road.
Peccato che poi rifletti su ciò che hai appena visto, e, anche condonando l'eccesso di idealismo alle essenze di frutta e la melensitudine da ernia iatale di cui è intriso, capisci che hai visto una grandissima puttanata. Un film hollywoodiano come questo, quando è ponderato e scritto decentemente, si struttura attorno al percorso di un personaggio principale, elemento fondamentale sul quale si innestano varie trame e sottotrame, comunque funzionali alla storyline principale. Più raramente, succede che i personaggi centrali siano più d'uno, e le loro vicende si sviluppino parallelamente o si intreccino addirittura.
Ne Il Primo Cavaliere, il focus passa da un personaggio all'altro, senza alcun sviluppo o giustificazione, creando una successione compartimenti stagni legate da un'esile filo narrativo. Il film inizia su Lancillotto, continua su Ginevra, alla fine sembra essere sul tormentato Artù, per poi sterzare fortunosamente sulla coppia Lancillotto-Ginevra.
Non solo: la storia d'amore tra Ginevra e Artù è il solo fil rouge che porta avanti il film, ed è puramente pretestuosa: non ha basi concrete, Lancillotto è monoliticamente convinto da inizio a fine film che Ginevra si concederà; Ginevra - l'unico personaggio con un minimo di attrattiva e spessore - non ha un momento di reale esitazione, passa improvvisamente da un partito all'altro e ritorno, senza che ci si soffermi minimanente sulla sua (eventuale) indecisione, e questo distrugge la credibilità della storia d'amore. E, visto che questo film su questo si basa, significa che il film ha fondamentalmente fallito. Ma i suoi soldini  se li è portati a casa lo stesso.
Ma la reggina non è l'unico personaggio dipinto a cazzuolate le origini di Lancillotto paiono improvvisate solo per giustificare una scena . E, al contrario della brava-in-quanto-modulata Julia Ormond, qui il buon Richard Gere non fa altro che lo sborone con la spada, le tagliole e le nuotate. E ogni tanto chiagne. Chiagne e fotte. Bravo.
Infine, c'è Artù il soprammobile: qui Sean Connery interpreta l'incarnazione di un ideale (Camelot) talmente astratto e vago da essere inafferrabile. Questa incertezza etico-morale, a cui i valorosi cavalieri dovrebbero ispirarsi, fa l'occhiolino con una contemporaneità buona perchè democratica e tollerante, stabilendo un fil rouge sovrastorico un po' strano. Sei anni dopo, questo.

Sean CoRnery.

Insomma, questo film è stato scritto, riscritto, ritagliato e rincollato così tante volte da dare le vertigini anche a Bossi, quanto a coerenza.
Ora, non sfugge neanche a me l'ironia della situazione: hai parlato di Se non ora quando, il film merdoso della situazione è Il primo Cavaliere. Eccetera. Ma vedete, che voi c'avete solo quello in testa (That's what she said).
Passiamo ad altro.
 


Scott Pilgrim vs The World è un fi esattamente il contrario de Il primo cavaliere.
SP che sprizza genuinità e cuore grazie alla sua implacabile iperbolicità (ammappate che paroloni): la storia di un normale boy meets girl diventa uno pseudo-videogame lisergico avvinghiato con la punta delle unghie alla realtà. Lacerandola. Scopo ultimo del nostro eroe è conquistare una lei inafferrabile, ma soprattutto ri-conquistare se stesso.

Al terzo minuto, già si capisce che qualcosa non va...

Scott Pilgrim è un ragazzo come tanti altri, nerd quanto basta e bassista (hiyay!) di una garage band,  i Sex Bob-omb. Un bel giorno, conosce la ragazza dei suoi sogni (letteralmente), Ramona Flowers. E per stare con lei, deve affrontare i di lei Sette Malvagi Ex, uno più strambo e potente dell'altro. Ma per amore, si porge l'altra guancia (e se uno porge l'altra guancia, vuol dire che non si è colpito abbastanza forte - cit.)
Come ti capisco, Scottie...
Edgar Wright, il regista di questa perlona tratta da un fumettone Bryan Lee O'Malley (beccatevi che faccia da schiaffi che c'ha), è un fumatissimo regista inglese che ha firmato il rivoluzionario (anche se tutto sommato non ridancianamente spancevole - almeno per me) Shaun of the Dead e l'action movie coi ciccioni definitivo, ovvero Hot Fuzz. Recuperateveli, siuri.
Ebbene, una volta accettato l'arduo compito di adattare uno dei "manga" più  orgogliosamente nerd ever per il grande schermo, Wright ha distrutto la scatolina con scritto "Attenzione, distruttore di inibizioni cinematografiche" e ha lasciato che il film crescesse da solo, con invenzioni visive talmente inventive che forse sarebbe il caso di ridefinire la parola "pop". In tutte le lingue ed accezioni. Per farvi un esempio di quanto sia perfettamente inutile parlare di questo film a parole, eccovi i soli titoli di testa.


Una delle tante cose che rendono questo film propedeutico all'evoluzione della specie umana.
Qualcuno si è lamentato che questo Scott non avesse il fattore di "in-credibilità" dei film precedenti di Wright, semplicemente perchè al posto della montagna di simpatia nota al mondo come Nick Frost, c'è la Graziella del cinema contemporaneo, il nerd-per-tutte-le-stagioni Michael Cera. Il discorso era che, se la fisicità propromente del Nick giustificava l'improbabilità dei suoi stunt hollywoodiani post-moderni, non succedeva altrettanto con il povero Michael, la cui fisicità esile non era altrettanto ridicola. Ma perchè? Caro il mio collega recensore, perchè? è che sto lavoro incancrenisce il cuore, ecco che c'è. Ogni tanto vi fan bene un po' di Muppets, che rinfrescano l'anima.
Il valore aggiunto di questo capolavoro, e non esito a chiamarlo così perchè giocare a ping pong con l'apparato visivo del pubblico non son capaci mica tutti, sono i personaggi, in perfetto equilibrio tra tipo e personaggio a tutto tondo, con la fantastica Mary Elizabeth Winstead, che, oltre ad essere uno squinzione paciarotto, impersona una Ramona Flowers stronzissima, ma gradualmente paciosamente umana. Insomma, come piace a noi sfigatoni d'altri tempi.
Con questo è tutto, alla prossima volta, fratelli... di nuovo con un Prospettiva Miyazaki...


La morale di questa storia:
Cavaliere con più dame... bunga bunga all'ospedale.

Next Week (per davvero):
Prospettiva Miyazaki #7 - La principessa Mononoke


Propettiva Miyazaki #6 - Porco Rosso

Ehilà! Ma chi c'è? Gli internzionali lettori di Double Feature, il blog più sottovalutato di tutta Internet! Un sentito grazie ai nostri fan della Federazione Russa e degli Stati Uniti, e ovviamente i nostri amici thailandesi, a cui rivolgo un sentito เพื่อนที่ดีของฉันในประเทศไทย, วิธีที่คุณสามารถเข้าใจสิ่งนี้หรือไม่.

Colpito da un incantesimo durante la Prima Guerra Mondiale che gli ha trasformato il viso, Marco "Porco Rosso" Pagot è un aviatore che si mantiene come cacciatore di taglie nell'Italia di metà anni 20. Quando il pilota americano Donald Curtis lo umilia pubblicamente schiantandogli lo sferraglione, il Nostro decide di prendersi la rivincita, e, nel processo, impalmare Madame Gina, la graziosa ospite di un hotel sulle rive del Lago di Como di lui innamorata. Braccato anche dai Servizi Segreti fascisti Porco Rosso è affiancato da Fio Piccolo, nipote del fido meccanico del Nostro, che, testardamente, decide di seguirlo nella sua fuga/rivincita.
Anche i maiali sanno volare, forniti di mezzi adatti. (Ora la capite questa battuta)
Bestie parlanti, veivoli, belle donne: c'è tutto il necessario per un film di Neri Parenti, ma invece qui c'è sempre Miyazaki (davvero?!) e viene un film bello. Il nostro ci restituisce intatto tutto il suo amore per aviatori e i loro mezzi (paradossale, visto il parallelo guerra - tecnologia che si è già evidenziato per i film precedenti) e lo riplasma in una storia di profonda umanità, sullo sfondo di un'Italia in pieno fascismo (coi fasci qui vestiti molto meglio). Porco Rosso sarà soprattutto una divertentissima storia d'avventura, ma è soprattutto un percorso di ritorno all'umanità di un essere che se ne era estraniato completamente, perchè disilluso da orrori e ferite insanabili. Porco Rosso è, in definitiva, un invito alla speranza e al volo, metaforico o meno. 

Colpo Grosso al Porco Rosso. Cin cin!
Nonostante Fio sia un altro esempio di “Miyazaki Princess”, se vogliamo chiamarle così, il fulcro del film, una tantum, è un masculo:  come da titolo, il carissimo Porco.  Sì, certo, uno stronzo mica da ridere, ma quantomeno uno stronzo buono, tipo Han Solo: tutte uguali le canaglie del mondo, che inevitabilmente calamitano fanciulle con qualche traccia di "complesso della crocerossina"... Poi c'è il fascino della vittima di incantesimo (Po-po-porker face)... Incantesimo un cazzo, caro il mio Marco...
* Nota supernerd: il vero cognome di Porco Rosso, Pagot, è quello dei creatori di Calimero, Nino e Toni, i cui figli avevano collaborato con HM per la serie Il fiuto di Sherlock Holmes). 
Certo, curioso che il protagonista riassuma tutti i tratti dell'eroina miyazakiana: vola, ha un rapporto speciale con gli animali (essendolo egli stesso) ed è ostinato e coraggioso. Insomma, Porco Rosso è un rarissimo esempio di "quota azzurra" cinematografica.

 "Ehi tu, Porco, levale le mani di dosso."
Con questo film tutto volocentrico, Hayao si concede una librata senza precedenti, con sequenze aeree degne dei migliori documentari di guerra. Anzi, meglio, e con più cuore. Un altro gioiellino per il Maestro giapponese, un altra esperienza memorabile per lo spettatore.
A margine: Porco Rosso ha toccato le sale italiane solo nell'ottobre 2010. Dopo diciott'anni. Un fortissimo applauso per noi.

Next Week: La Principessa Monokoke!

Prospettiva Miyazaki #5 - Kiki, Consegne a Domicilio

Piaciuta la parentesi musicale? Nooo?! Impuniti...!
Allora, dopo la parentesina torniamo alla nostra Prospettiva Miyazaki... Non si sa mai che poi l'Hayao si offende. Questa volta, tocca al film del 1989 Kiki, Consegne a domicilio.
E se non vi piace, v'arriva una scarica di mazzate. A domicilio.

Embé?
Kiki è una futura streghetta, sempre affincata dal gatto Gigi: com'è tradizione, a tredici anni deve trascorrere lontano da casa il suo anno di noviziato, possibilmente in una città senza altre streghe. La nostra carissima si stabilisce a Koriko, una cittadina suggestiva dove, grazie alla gentilezza di una panettiera locale, sfrutterà le sue capacità di volo (su scopa) per mettere in piedi una piccola impresa di consegne a domicilio.

Ho un sentore di 1982...


Scontento dalla sceneggiature precedenti e troppo impegnato su Totoro per occuparsene direttamente, Miyazaki si prende la responsabilità di questo adattamento del libro omonimo di Eiko Kadono (e stai un po' attento...) solo nel 1988 e lo porta al livello di opera d'arte, soprattutto grazie ai vaghi riferimenti all'urbanistica svedese e al contesto post-fiabesco (tutto questo parlare di streghe andate, di grandi eroi del volo, di dirigibili...). Ma il punto di forza è proprio il percorso di crescita sempre più doloroso (nei limiti di un film per ragazzi), sviluppato da HM indipendente dal libro originale, che le fonti internettistiche mi dicono essere assai più episodico.

Oh, the humanity...
Il Miyazakone colpisce ancora, in una versione streghesca dei suoi tipici ingredienti: ragazzine decise, sbarazzine e volanti, animali parlanti (solo con la suddetta), magia, senso del fantastico e fiducia tra gli umani tutti. Qui si continua sul filone Totoriano, azzerando l'elemento conflittuale dalla storia, che si sviluppa interamente attorno alle varie facce della vita che la ragazzina deve conoscere ed affrontare - amore e delusione inclusi. Finalmente un film sul crescere onesto e responsabilizzante, dico io - non il "fai il cazzo che vuoi che la gente more lo stessso" di film come, che ne so, boh. Tutto ciò non ha impedito alle associazioni cattoliche americane di tentare di boicottare il film per eccesso di stregoneria.

... ecco, per l'appunto...

Diciamoci la verità, ormai uno si annoia e basta a parlarne bene di questi film. Sono tutti bellissimi, come fai?
Maledetto Hayao, maledetto.


Next Week:
Prospettiva Miyazaki #6: Porco Rosso!

Arrivederci, Mostro! vs. Chokabeck

Nel 2010 sono usciti tutti o quasi. La cosa fa godere in termini di mero gusto musicale, e quasi stupisce in un periodo davvero nero per l'industria musicale. Eppure, classifiche a parte, è stato un anno particolarmente fertile per la musica italiana che non sentirete mai se non ve la andate a cercare. Ed è un peccato che sia rimasta sommersa, visto l'autismo nei media nazionali (abbiamo persino una radio di sola musica italiana che tramette all'incirca il 2, 3% di quello che vien fuori dai nostri studi di registrazione ogni anno), e non aiuta una certa tendenza all'esterofilia - che ok che fanno più e fanno meglio, ma non schifiamoci il cortile, anzi... -, e duecento milioni di altre ragioni che a elencarle sembriamo troppo dei comunisti in cachemire.

Giusto per non parlare solo di cinema, ogni tanto mi piacerebbe fare un po' il termometro del nostro pop italico, tanto per annoiare deliberatamente anche i pochi comunisti in cachemire che ci seguono dalla Federazione Russa. 
Per questa prima puntata, mi occupo di quelli che sono stati, in termini di vendite, almeno, i due dischi italiani dell'anno: Chocabeck di Zucchero e il "primo ovunque" Arrivederci Mostro di Ligabue. Tra i due ci sarebbero i pupilli della De Filippi e Biagio Antonacci, in realtà, ma, visto che ci occupiamo di due cose per volte e almeno una delle due vorrei che mi piacesse (al di là del fatto che Zucchero fa il culo a Toto Cutugno all'estero e così via), ho scelto il nuovo disco dell'Adelmo Fornaciari.

Piacere pesce...

Non perdiamo tempo e andiamo subito al sodo con Arrivederci, Mostro! di Ligabue. Mostro lo dirai a tua sorella, 'a Toro Seduto.

1. Quando canterai la tua canzone
"Arimortacci, Vostra!" inizia col botto! Un riff, con la batteria e il basso che sembrano un gruppo rock californiano alla MTV. E Ligabue? Ah, arriva dopo.
Prosegue il tema cardine del Luciano: il mondo è cattivo, vivi come ti pare, e fanculo chi ti dice qualcosa- "lasciamo gli altri a commentare". Eh ok. C'è bisogno di dirlo ogni volta che esci con qualcosa?  Sto discorso lo abbiamo già fatto qui, ma puoi anche sbattertene di quello che dicono, senza che gli dedichi così tanta attenzione. Qui si definisce "Ciurlare nel manico", Lucianone.

2. La linea sottile
Oh, eccolo: Luciano ha appena realizzato che alcune cose sono una cosa ma ne comportano/conseguono anche un'altra, e che questo comporta il fatto che non possiamo isolarci dal mondo medesimo (Paolo Conte escluso). Wow. E, nel frattempo, ci sta anche la strizzatina agli aficionados ai lettori de La Casta ("i primi che mangiano tutto e gli ultimi pagano tutto quel conto"); agli ottimisti di ritorno ("i traguardi che sono partenze ed un tramonto che è come un mattino"); ma anche ai giovani compratori twilightiani ("A mia volta  ti apro la casa / e ti trovi davanti a un vampiro / che a mia volta devo succhiare / tutto l'amore che riesco a rubare"). Oltre ad essere un esempio splendido di pigrizia lirica e di lieve disturbo ossessivo-compulsivo, mi si rafforza la convinzione di uno che si sia rifugiato nel ruolo del Dalai Lama al Lambrusco, per potersi giustificare in qualche modo come "poeta che parla la lingua dei ggiovani". Ma "cosa pensi di fare, da che parte vuoi stare?" Diccelo, una volta per tutte, Lucianone.

3. Nel tempo
È tornato il gruppo rock californiano di prima in versione "C'ero - Manca". In questa canzone, pensate un po', ci sono: Zorro, Blek, Braccobaldo, Lavorini, la 1100, De Gregori, i Police, Berlinguer, Moro, Falcone e Borsellino. Manca Vermicino e ci siamo portati a casa "I migliori anni" versione catto-comunista, Lucianone.

4. Ci sei sempre stata
E vai con la ballata e gli accendini. Passabile, con tutti i crismi della canzoncina dell'ammore un po' emancipata, ma va bene così, Lucianone.

5. La verità è una scelta
Mi distraggo un attimo e arrivano i Nine Inch Nails! No, ma cosa dico... è Ligabue. Bravo Liga, arrangiamento coraggioso per un disco pop-rock italiano. Sì, quindici anni fa. Ah giusto, è colpa del produttore! Cazzarola, Lucianone!
N.B: In questa canzone, torna a grande richiesta l'analogia passo - tappe dell'esistenza. Guest starring: il nichilismo da cortile contro i politicanti. Questa volta però c'è un tema nuovo, e  questo mi pare pure importante: la necessità della coerenza etico-morale, di veglia perenne contro la prevaricazione. E parla male di Berlusconi, se devi, cazzo!
Pezzo migliore del disco? Pezzo migliore del disco, ma di tanto così.

6. Caro Francesco
Quando la dedica diventa un insulto. In questa canzone si parla essenzialmente di ipocrisia, come in metà di canzoni di questo disco. E basta. I giornali corrono dietro a ste cose: d'altronde, quando prendi  un classico della canzone d'autore italiana, cerchi di continuarlo con altri mezzi e ottieni solo una palla di un didascalismo unico, viene logico. Ma soprattutto, non potevi chiamarlo per telefono Francesco, eh, Lucianone? Cos'è un problema soffrire da soli? Già meni il torrone in TUTTE le tue canzoni, Lucianone.
Insomma, vai a chapà i ratt, Lucianone.

7. Atto di fede
A supporto del Luciano, arrivano i Coldplay, le chitarrine di Avril Lavigne e gli accordi maggiori che la canzone minchia si apre. Il testo è puramente pretestuoso e non c'entra una mazza con il pure condivisibile ritornello. Sì, se si perpetua la litania del carpe diem sembra che né Ligabue né la civiltà occidentale sia in grado di giustificarsi, vero, Lucianone? Premio della critica per “Vivere è un atto di fede nello sbattimento”, quanto siamo ggiovani, eh, Lucianone?

8. Un colpo all'anima.
Un po' anticipando la moda degli elenchi di Fazio, questo singolo è emblematico di come il Luciano nei momenti di stanca scriva le canzoni stilando liste un po' a caso, con un ritornello e una qualche catafora da appicicare tanto per garantire agli acquirenti la memorizzazione rapida. A tre quarti del pezzo, arrivano i Cream e fanno un solo e pure quelli che credono che Ligabue sia un esempio di rock italiano sono contenti. Un colpo al cerchio e uno alla botte, eh, Lucianone? (anyway, cazzo significa un colpo al cerchio e un altro all'anima?)

9. Il peso della valigia. 
La vita è una gran fatica, c'è da resistere, vai vai che poi alla fine forse arrivi. A soffrire si migliora, Lucianone?

10. Taca banda. Ooh, finalmente un pezzo un po' più genuino. Vai col blues. Sempre lista, sempre stesso disincanto ritrito, ma attaccato a questo filastrocchismo il cinismo è sempre più efficace. Peccato che sfumi. Odio quando sfumano, Lucianone.

11. Quando mi vieni a prendere.
E parte il fazzoletto. Ligabue interpreta il bambino, e viene un po' da ridere. Gli effettini, shocking  le spatoline, la maestra, il latte, tutto ben incastrato nella retorica del piagnucolone. Sarà che mi fan girare quando tirano in mezzo i bambini, ma questo pezzo è fondamentalmente inutile: insomma, Vermicino che mancava in 3, è qua. Il cerchio è ora completo, Lucianone.

12. Il meglio deve ancora venire.
Speriamo, eh, Lucianone?

Insomma: Non posso nascondere che buona parte dei commenti qui sono mossi da un mio genuino detestare il rocker di Correggio, ma penso siano ben evidenti e argomentati i motivi: la pigrizia compositiva, tematica e di stesura, il totale spaesamento etico-morale che traspare nei testi, nonché lo sproporzionato seguito a lui dedicato (sintomo second me di un certo pressapochismo più generalizzato, ma tant'è...). In questo disco, si aggiunge una produzione esageratamente plasticosa e di molto glassata rispetto alla relativa ruvidezza del passato - forse proprio in uno sfoggio d'onestà.
Per il resto, non è cattivo.

Fine?
Fine. Tocca a Sugar!


1. Un soffio caldo
Si inizia cona Zucchero fa il Manzoni, a volo d'angelo sui campi e poi giù a limoni. Qui Guccini non è evocato, come nel disco poc'anzi recensuto, ma c'è davvero. E quasi non sembra lui. A sostegno del pezzo fischettiare che si presta ad armonizzazioni bucoliche mica da ridere, che minghia sembra che sta già arrivando Brian Wilson e il Pet Sounds. Poi questa con l'ukulele si fa una meraviglia.

2. Il suono della domenica. 
In lingua anglofona, il testo l'ha scritto Bono. Continua il filone agreste, forse anche meglio. Immaginatevi Zucchero col chitarrino sotto il portico al tramonto, o per strada che cammina da solo. E potete anche immaginare meno, visto che le copertine dei dischi son sempre così... Comunque, qui abbiamo l'altra faccia della medaglia: quella del presente, non più dorato e caloroso come prima (con stoccata religiosa "ho visto fedi false fare solo guai"-- che impunito che sei, 'a Fornacià). Però, c'è sempre la speranza che in fondo 'il suo della domenica' rifiorisca....

3. Soldati nella mia città. 
Metafora leggermente datata Seconda Guerra Mondiale, dove finalmente un cuoricione può donarsi alla Ricostruzione. Peccato, pezzo meno riuscito del disco, ma lo si perdona, dai.
4. È un peccato morir. 
Pasquale Panella, sì lui... quello di capolavori (e non scherzo - beh, forse nel terzo caso un po' sì) come: questo, questo e questo. Qui il Vanera si è fatto di cicoria e fa le Bucoliche di Virgilio Sangiovese edition. Tutti a far l'amore nelle vigne per celebrare la vita. Spetta, sbagliato pezzo.
* Oscar per la miglior frase sulla Trinità: "Gloria a te nell'aria / quale tu sia / solo uno o solo in compagnia".
** Qualcuno mi spiega il mistero di "fare 101"?

5. Vedo nero.
Finalmente un nuovo classico sulla Patonza e sulla frustrazione da mancanza di coccole - con le relative conseguenze - da cantare sui pullman e scrivere sui muri di questa città. Mimmo Cavallo - paroliere - resuscita i proberbiali doppi sensi su "Shock the Monkey" di Peter Gabriel, vince l'Oscar alla Virilitàcon "la vedo nera, ma nera nera, ma non mi arrendo: ho alzabandiera".

6. Oltre le rive
Praticamente il remake di Diamante con un pizzico di She's My Baby, ma stavolta scrive quello che Tony Renis ha definito "il Francesco De Gregori del 2000" (non chiedetemi perchè....), ovvero Pacifico. Lasciamoci trascinare nel limone duro in questo capolavoro d'assonanze fonetiche, mentre Zucchero ci parla di uno stalker che arriva a occupare abusivamente una tipa. No, scherzo: è il drammatico percorso di un uomo separato a forza dalla squinzia (morta?)

7. Un uovo sodo
Stesso argomento, in simpatia. Da consumare dopo tre minuti e quindici. 

8. Chocabeck
Zucchero + Pasquale Panella + Brian Wilson + pompa truzza: il mondo ora può finire serenamente. Sulle note di Mamma Maria dei Ricchi & Poveri, of course.
Oscar a Panella per: "Di più di più, l'amore fu / un calcio in culo e tante stelle lassù".

9. Alla fine
Si parte dal bucolico, e si va nel trascendente. Probabilmente un futuro classico gospel zuccheresco, zuccheriano, zuccheroso. Ma penso che tutti sognino di spirare (sì, ok, sto generalizzando) nella natura.

10. Spicinfrin Boy
Qui il Nostro si guarda da ragazzo (spincifrin era un appellativo addossato all'Adelmo dalla sua nonna) e unisce, come in Chocabeck, dialetto e inglish in un altro bel spaccato di vita.
 
11. God Bless The Child
Andiamo sul melancoepico galoppante come solo l'Adelmo sa farli. C'è un po' di Freddy Mercury in Who Wants To Live Forever, c'è un po' di prosciutto crudo... c'è tutto, però non è che alla fine attecchisca molto. Peccato, ma grazie lo stesso, zio Adelmo.

Insomma: 
Da un punto di vista puramente pragmatico, questo è il miglior disco italiano dell'anno. Mi spiego: è senza dubbio il miglior pop che possiamo produrre ed esportare, che venda e che abbia un pubblico quantitvamente incisivo. La qualità direi discretamente luminosa del disco - e il divertimento che la impregna - sono tutto grasso che cola.
Sembra un turarsi il naso, ma non lo è del tutto.


La morale di questa storia: 
Quando il gioco si fa duro, porgi l'altra guancia.

Soonissimo:
Prospettiva Miyazaki #5 : Kiki, Consegne a Domicilio